Rula Jebreal, il monologo contro la violenza sulle donne a Sanremo 2020: “lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere”

Rula Jebreal, monologo Sanremo 2020

Rula Jebreal a Sanremo 2020 ha conquistato tutti. Le polemiche della vigilia sono state letteralmente soffiate via da un monologo intenso e commovente dedicato alle donne, ad un’emergenza che la giornalista ha definito “nazionale, ma anche internazionale”. Parole chiare che sono arrivate come un pugno nello stomaco dal palcoscenico del Teatro Ariston di Sanremo che ha regalato, senza alcun dubbio, il momento più alto e migliore della prima serata del Festival.

Sanremo 2020, il monologo di Rula Jebreal

Amadeus ha introdotto il monologo di Rula Jebreal a Sanremo 2020 precisando: “ora vi chiedo un attimo di massima attenzione, stanno portando due leggii, ogni leggio ha un libro, vedrete due libri: uno bianco con le parole di cui vorremmo riempirci la vita, parole urgenti, mentre su quello nero le parole della realtà e della sofferenza“.

La parola poi passa alla giornalista e scrittrice palestinese:

-Lei aveva la biancheria intima quella sera?

-Si ricorda di aver cercato su internet il nome di un anticoncezionale quella mattina?

-Lei trova sexy gli uomini che indossano i jeans?

-Se le donne non vogliono essere stuprate devono smetterla di vestirsi da poco di buono.

Queste sono solo alcune delle frasi usate in un’aula di tribunale a due ragazze che in Italia, non molto tempo fa, hanno denunciato una violenza sessuale. Domande insinuanti, che sottolineando una verità amara, crudele: noi donne non siamo mai innocenti. Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi, perché abbiamo denunciato troppo presto, perché siamo tropo belle o troppo brutto perché eravamo troppo disinibite e ce la siamo voluta.

Rula Jebreal a Sanremo 2020 commuove e fa riflettere

Poi la giornalista recita alcune strofe della canzone “La cura” di Franco Battiati inserite nel libro bianco:

“Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo. Perché sei un essere speciale ed io, avrò cura di te.”

Poi racconta la sua storia:

Sono cresciuta in un orfanotrofio, insieme a centinaia di bambine. La sera, una per volta, noi bambine raccontavamo una storia, le nostre storie. Erano una specie di favole tristi. Non favole di mamme che conciliano il sonno, ma favole di figlie sfortunate, che il sonno lo toglievano. Ci raccontavamo delle nostre madri: torturate, uccise, violentate. Ogni sera, prima di dormire, ci liberavamo tutte insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho imparato, venendo da luoghi di guerra, a credere nelle parole e non ai fucili, per cercare di rendere il mondo un posto migliore. Anche e soprattutto per le donne. Ma poi ci sono i numeri.

La Jebreal poi condivide dei numeri davvero assurdi sulla violenza sulle donne:

E in Italia, in questo magnifico Paese che mi ha accolto, i numeri sono spietati: ogni 3 giorni viene uccisa una donna, 6 donne sono state uccise la scorsa settimana. E nell’85% dei casi, il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, l’ombra delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

Si torna al libro bianco con la splendida “La donna cannone” di Francesco De Gregori:

“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno, Giuro che lo farò. E oltre l’azzurro della tenda nell’azzurro io volerò. Quando la donna cannone d’oro e d’argento diventerà senza passare dalla stazione l’ultimo treno prenderà”.

Rula Jebreal e la madre Zakia: “il suo corpo luogo della sua tortura”

Un monologo intenso e carico di emozioni quello di Rula Jebreal a Sanremo 2020 che ha ricordato anche la madre Zakia, violentata per anni. Un ricordo condiviso a cuore aperto con il pubblico italiano:

Mia madre Zakia, che tutti chiamavano Nadia, ha preso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire e ad annerirle i vestiti quando era solo un’adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi, era stato la sua tortura. Perché mia madre Nadia fu stuprata e brutalizzata due volte: a 13 anni da un uomo e poi dal sistema che l’ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Le ferite sanguinano di più quando non si è creduti. L’uomo che l’ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei, mentre le fiamme mangiavano il suo corpo, aveva le chiavi di casa.

Poi recita alcune strofe di Sally di Vasco Rossi:

“Sally ha patito troppo, Sally ha già visto che cosa ti può crollare addosso, Sally è già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza per ogni candida carezza data per non sentire l’amarezza”

Quante volte siamo state Sally? Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 marzo del 1973, cercò salvezza nella musica. “Devo stare calma. Devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni, devo stare calma”, recitava nel suo potente monologo “Lo stupro”, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le parole delle canzoni possono essere messaggi d’amore e di salvezza. Io sono diventata la donna che sono perché lo dovevo a mia madre, lo devo a mia figlia che è seduta in mezzo a voi. Lo dobbiamo tutte, tutti, a una madre, una figlia, una sorella, al nostro paese, anche agli uomini, all’idea stessa di civiltà e uguaglianza. All’idea più grande di tutte: quella di libertà.

Parlo agli uomini, adesso. Lasciateci libere di essere ciò che vogliamo essere. Lasciateci fare quello che vogliamo del nostro corpo e ribellatevi insieme a noi, quando qualcuno ci dice cosa dobbiamo farne. Siate nostri complici. E quando qualcuno ci chiede “Lei cosa ha fatto per meritare ciò che è accaduto?”

L’ultima canzone è “C’è tempo” di Ivano Fossati:

“C’è un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle l’istante in cui scocca l’unica freccia che arriva alla volta celeste e trafigge le stelle. È un giorno che tutta la gente si tende la mano è il medesimo istante per tutti che sarà benedetto, io credo da molto lontano”.

Poi Rula lascia il palco con un’ultimo potentissimo messaggio destinato a tutti, uomini e donne:

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e le donne, ma sono qui per parlare delle cose di cui è necessario parlare. Certo ho messo un bel vestito. Domani chiedetevi pure al bar “Com’era vestita Rula?. Che non si chieda mai più, però, a una donna che è stata stuprata: “Com’era vestita, lei, quella notte?. 

Mia madre ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l’ha fatta. E così tante donne. E noi non vogliamo più avere paura.  Vogliamo essere amate. Lo devo a mia madre, lo dobbiamo a noi stesse, alla nostre figlie. Nessuno può permettersi il diritto di addormentarci con una favola. Vogliamo essere note, silenzi, rumori, libere nel tempo e nello spazio. Vogliamo essere questo: musica.

Gran finale sulle note di “Caruso” di Lucio Dalla con la standing ovation del pubblico e le lacrime che hanno rigato il volto del pubblico presente all’Ariston e da casa.

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