Estela è una donna originaria di Chiloé, una zona povera nel sud del Cile, che si è trasferita a Santiago per lavorare come domestica presso una famiglia ricca che abita in uno dei quartieri privati più esclusivi della capitale. La maggior parte delle responsabilità di Estela ruota attorno a Julia, la figlia di sei anni della coppia, figure sfocate che attraversano la casa come fantasmi spesso assenti, lontani fisicamente ed emotivamente dai bisogni della bambina.
La protagonista di Limpia si ritrova così a doversi occupare di tutti i bisogni quotidiani della piccola, come una sorta di seconda madre. Tra le due si sviluppa un legame profondo, ma questo equilibrio fragile è destinato a crollare. Mentre Estela cerca di conciliare gli obblighi verso la sua famiglia – l’anziana madre è malata da tempo – e la nascente relazione con Carlos, che lavora in una vicina stazione di servizio, gli obblighi e i doveri rischiano di sopraffarla.
Limpia, recensione: dalla carta allo schermo
Ci troviamo davanti all’adattamento dell’omonimo romanzo di Alia Trabucco Zerán, opera vincitrice di diversi premi che nel libro seguiva una struttura parzialmente diversa, dall’approccio più investigativo. La regista cilena Dominga Sotomayor, già autrice tra gli altri di De jueves a domingo (2012) e Tarde para morir joven (2018) ha optato per un cambiamento radicale, trasformando il materiale narrativo in un dramma ricco di sfumature esistenziali.
Una trama lineare che per cento minuti segue quotidianità di Estela, immergendo lo spettatore nella routine ripetitiva e claustrofobica che fa da preambolo a quell’epilogo inaspettato, chiudente amaramente il cerchio su una vicenda di mancanze e di ingiustizie sociali. Un racconto dove proprio la sincera relazione tra la protagonista e la bambina diventa elemento di luce in grado di squarciare le tenebre di quel nucleo familiare che sembra del tutto estraneo ai desideri della figlia, abbandonata a se stessa.
Nel cuore del dramma
Il risultato è un film visivamente curato che privilegia lunghi piani sequenza e inquadrature che stanno “attaccate” ai personaggi. La macchina da presa si insinua con discrezione quasi documentaristica negli spazi di questa casa borghese, catturando i momenti con un occhio attento ai dettagli, rivelanti le dinamiche di potere sottintese.
In Limpia si rifiuta la retorica pura o il didascalismo scontato. La regista non giudica apertamente i suoi personaggi, ma dà vita a figure complesse e sfaccettate, rendendo sempre e comunque centrale il ruolo potenzialmente sacrificale – e sacrificato – di Julia, che può contare sulla contagiosa spontaneità dell’esordiente assoluta Rosa Puga Vittini, seienne come il personaggio.
L’ultima parte rischia di perdere parzialmente equilibrio, fino a quell’epilogo amarissimo e lasciato unilateralmente aperto che chiude il racconto in maniera forse fin troppo netta, impedendo il corretto e necessario slancio emozionale relativo a suddetto evento clou.
A tratti memore del primo Larrain, che non a caso risulta tra i produttori, il film può contare sulla performance immersiva di María Paz Grandjean, attrice dall’esperienza teatrale che si cala nel ruolo di Estela con la giusta e sofferta intensità, sempre e comunque al servizio di quell’approccio minimale che rende Limpia un’operazione interessante anche nelle sue spigolature.
Conclusioni finali
Libera trasposizione dell’omonimo romanzo, riletto in chiave maggiormente intimista e drammatica, Limpia ha il merito di rifiutare le soluzioni di un facile melodramma e la retorica gratuita, puntando sulla routine quotidiana per rivelare dinamiche di potere e abissi sociali.
In una famiglia più assente che effettivamente crudele si muove la figura potenzialmente salvifica di una domestica che diventa una sorta di seconda madre per la bambina a lei affidata. Lo stile minimalista e una regia che pedina i personaggi da vicino, tra luci e ombre, offre il giusto sviluppo tensivo ed emotivo, pur con qualche sbavatura qua e là soprattutto nell’ultimo atto.









