Intervista a Biagio Iacovelli: “Sono un ragazzo lucano che ha la necessità di raccontare qualcosa”.

Biagio Iacovelli intervista

Ha appena esordito sul grande schermo con il suo primo ruolo da protagonista, ma ha mosso i suoi primi passi come attore nel mondo del teatro. L’intervista di oggi è rivolta a Biagio Iacovelli.

Immagina di essere scrittore per un giorno. Narraci brevemente la storia di Biagio Iacovelli.

Biagio Iacovelli è un giovane ragazzo lucano, cresciuto a Latronico che, finito il Liceo, si è reso conto della necessità di raccontare qualcosa. Così, è partito per Roma per studiare arte drammatica all’Accademia Sofia Amendolea.

Diplomatosi, ha iniziato a lavorare quasi esclusivamente a teatro e adesso ha esordito al cinema.

Oggi, Biagio Iacovelli è e resta sempre un giovane ragazzo lucano che ha ancora la necessità di raccontare qualcosa.

C’è stato un episodio in particolare, nel corso della tua infanzia o adolescenza, che ti ha indotto a pensare: “Il mio futuro è la recitazione!”?

Più che un episodio, è stato un crescere di una voglia e di una necessità. L’occasione per scoprirlo fu (soprattutto l’ultimo anno, in quinta liceo) il corso di teatro della scuola. Quando i miei genitori, senza che io dicessi nulla a loro, mi dissero: “Se è questo che vuoi fare, noi ti appoggiamo”, non ebbi più dubbi.

Da giovane liceale lucano a studente dell’Accademia Teatrale Sofia Amendolea di Roma. Definiresti questo passaggio della tua vita più una divertente sessione di rimbalzi su un tappeto elastico o un terrificante salto nel vuoto (magari stile bungee jumping)?

Nooo! “Terrificante” è l’ultimo termine che userei per definire i miei anni in accademia. Direi che è stato un meraviglioso salto nel vuoto, senza elastico: un mondo tutto nuovo, Roma, il teatro di cui non sapevo assolutamente nulla (se non che era quello che volevo fare), i miei insegnanti che amo tutt’ora, i miei compagni e la scoperta di me stesso. Direi che sono forse stati gli anni più soddisfacenti della mia vita.

Il teatro: un universo parallelo, misterioso ed incredibile, che soltanto chi sperimenta personalmente può capire. Cos’è il teatro per te?

Per me, il teatro è il gioco più serio del mondo. Il gioco più sacro. E’ sempre il Teatro che muove te, quando pensi di essere tu a muovere il Teatro, hai perso di vista l’obiettivo.

Che ricordo conservi del tuo debutto sul palcoscenico?

Ricordo la mia insegnante, Monica Raponi, che dopo lo spettacolo ci permise di fumare una sigaretta con addosso i costumi di scena (salvo poi sgridarci bonariamente il giorno dopo!). Ricordo l’adrenalina a mille, ricordo le gambe che tremavano e ricordo uno dei personaggi che mi sono divertito di più a fare.

Tra i numerosi personaggi interpretati, quale ti ha reso la vita più difficile? Per intenderci: c’è stato un ruolo in cui hai fatto maggiormente fatica ad immedesimarti?

Probabilmente il ruolo di un omosessuale islamico condannato a morte nello spettacolo “The colours of Execution” di Fabio Omodei. Capirne la sensibilità, entrare in qualcosa di estraneo a me e cercare di evitarne i cliché fu molto complicato.

Oggi, due persone su tre sono letteralmente rapite dalle serie tv. Storie a puntate che ti intrigano, ti coinvolgono, ti deludono, ti appassionano… …e che hanno persino il potere di tenerti incollato allo schermo! Come vive questa realtà un appassionato di teatro?

Io credo che stia diventando una forma d’arte anche quella: la qualità delle serie tv si sta alzando in maniera clamorosa.

Sei un “telefilm addicted”?  Se sì, di quale/i serie tv?

Assolutamente sì. Le serie che mi hanno letteralmente rapito sono state “Romanzo Criminale”, “The Walking Dead” e “Hannibal”. Poi un gradino su tutte le altre c’è “Breaking Bad”: un capolavoro assoluto.

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Il 17 novembre 2016 è uscito in tutte le sale italiane il film “La sindrome di Antonio”, in cui reciti da protagonista. Di cosa parla questa commedia?

Racconta la storia di Antonio Soris, 20 anni, che nel 1970 parte da solo, alla guida della sua 500, alla volta della Grecia, alla ricerca della caverna delle ombre di Platone. Racconta la voglia del viaggio, della scoperta, della ribellione di quegli anni, racconta di una generazione che, quantomeno, ci ha provato. E parla di amore: in Grecia, Antonio incontrerà Maria, di cui si innamorerà.

Teatro e cinema: due facce della stessa medaglia o due realtà completamente distinte e separate?

Credo che partano dalla stessa necessità: quella di creare un linguaggio che trascenda il semplice significato delle parole e cercano di scavarne il significante. Ma lo fanno in maniera molto diversa tra di loro. Due facce di due medaglie appese alla stessa collanina.

Tre buone ragioni per correre al cinema e guardare “La sindrome di Antonio”

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  • Il cast: superlativo. Antonio Catania, Moni Ovadia, Remo Girone e l’indimenticabile Giorgio Albertazzi, quanto meno per rendere onore a carriere straordinarie.
  • Perché è coraggioso: racconta di qualcosa che nel linguaggio cinematografico può essere un tema parecchio difficile e lo fa con ambizione, con ironia e leggerezza.
  • Perché è un prodotto del cinema indipendente italiano: è anche ora che si dia credito ad una realtà che, ormai, definire nicchia è quanto meno riduttivo.

Nonostante la giovane età, la tua passione per la recitazione ti sta portando lontano, ma immaginiamo che tutto questo richieda molto impegno e molta tenacia. Cosa consiglieresti a chi, come te, vuole coltivare il talento recitativo?

Consiglio di non dimenticare mai qual è la vera ragione per cui bisogna donarsi alla recitazione. Consiglio di non farsi scoraggiare da un sistema marcio che non consente ai giovani di emergere. Consiglio di avere tenacia, menefreghismo e un bel pizzico di spensieratezza.

Come ha influito sulla tua vita la consapevolezza di essere nato in una terra che – per quanto splendida – offre meno chances ai giovani?

Beh, in maniera molto semplice: con l’emigrazione. E’ inevitabile. Ed è triste.

Quando non reciti o non sei completamente assorbito dallo studio, cosa fai? Cosa non può assolutamente mancare nel tuo tempo libero?

Per entrambe le domande, la risposta è la stessa: la lettura, senza dubbio. Un buon libro è una delle poche cose che raramente dimentico, al contrario di tutto il resto. Per il resto, faccio le cose che fa un normalissimo ragazzo di 24 anni: esco, vedo le persone a me care. Tutto nella norma.

C’è una domanda che non ti ho posto e a cui ti piacerebbe moltissimo rispondere? (Mi sento molto Marzullo in questo momento!)

Se ne vale la pena? Assolutamente sì, tutta!

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