Arancia Meccanica, recensione del Film a cura di Christian Fregoni

film Arancia Meccanica

Arancia Meccanica, trama, recensione accurata, voto della pellicola a cura di Christian Fregoni

Immortale capolavoro di un genio visionario come pochi prima d’allora, “A Clockwork Orange” trae le sue origini dall’omonima opera letteraria di Anthony Burgess. Edito nel 1962, questo romanzo distopico vede la sua genesi nella necessità dell’autore di immaginare e dipingere una società (quanto più prossima e attuale possibile, in realtà) dominata dalla completa sfiducia giovanile verso le autorità ed ogni forma di potere costituito, in virtù di una totale devozione verso un’estrema forma di violenza e prevaricazione sociale e il conseguente tentativo di minare la libertà personale, tramite il
condizionamento del pensiero.

Sfruttando queste linee guida di base, Kubrick traccia quindi la storia di una Londra “parallela”, in cui a farla da padrone sono bande giovanili che rifiutano ogni tipo di conformismo precostituito o imposto, rifugiandosi nell’esercizio dell’amata ultra violenza per trovare un senso a ciò che lo Stato non può dare.

Stato che è la ragione principale dell’annichilimento individuale, che interviene solamente quando ormai è troppo tardi, attuando misure coercitive al limite della tortura per cercare di correggere il comportamento deviato degli individui che lo compongono.

La Trama di Arancia Meccanica

In un futuro non meglio definito, a Londra, Alex de Large e i suoi “drughi” si ritrovano frequentemente al Korova Milk Bar per consumare grandi dosi di Lattepiù, ovvero latte mescolato con numerose sostanze stupefacenti, per poi dedicarsi alla pratica dell’adorata ultraviolenza.

Dopo una nottata trascorsa tra il pestaggio di un anziano senzatetto, lo scontro con una banda rivale e l’irruzione in un’abitazione privata con conseguente violenza fisica e carnale sulla coppia di proprietari, il giovane Alex si ritira a casa, abbandonandosi al sonno cullato dalle note dell’amatissimo Beethoven. Il giorno successivo qualcosa però si incrina.

I compagni cominciano ad accusare i metodi di comando pressoché tirannici di Alex, e dopo un tentativo di insubordinazione violentemente sedato, decidono di tradirlo durante l’ennesima visita a domicilio a sorpresa. La padrona di casa rimane vittima della brutale aggressione di Alex che viene stordito dagli altri tre drughi e lasciato tra le braccia della polizia.

Accusato di omicidio, il protagonista deve quindi scontare una condanna di 14 anni di carcere, durante i quali cerca di tenere una condotta il più moralmente retta possibile. Due anni dopo, viene a conoscenza di un innovativo metodo di rieducazione comportamentale attuato dal governo, che promette l’immediata scarcerazione a chiunque gli si sottoponga: il “trattamento Ludovico”.

Alex viene quindi trasferito in un centro medico dove gli vengono somministrati pesanti dosi di farmaci unitamente alla visione coatta di innumerevoli scene di sesso e violenza. La trasformazione giunge repentina, in quanto il trattamento provoca un’estrema reazione di repulsione fisica nel soggetto.

Il ragazzo viene quindi reinserito nella società, al contempo profondamente mutata quanto lui: mentre prima lui faceva parte degli oppressori, ora i deboli trovano nella sua incapacità di offendere e difendersi l’occasione per rifarsi di tutte le ingiustizie subite.

Recensione di Arancia Meccanica, L’ultraviolenza tra Gene Kelly e Beethoven

Analizzare un film come “Arancia Meccanica” non è affatto impresa semplice. D’altronde lo stesso Kubrick non ci ha affatto abituati ad opere dalla visione univoca e a una facile chiave di lettura dei suoi lavori. L’intento del regista di rappresentare un istinto violento presente in ciascuno di noi, contemporaneamente combattuto ed incentivato dalla società, si compone di diversi meccanismi stilistici e tecnici, che si incastrano tra di loro, come tessere di un superbo mosaico finemente cesellate.

La regia di Arancia Meccanica

Parliamo prima delle componenti più specificamente tecniche. La regia di Kubrick è incredibile: la macchina da presa è sia solido punto fisso di costruzione di inquadrature geometricamente perfette, che parte attiva di sequenze dominate da un caos ordinato in cui il grandangolo spadroneggia per ingigantire le dimensioni ed alienare il punto di vista dello spettatore.

Stacchi di montaggio magistrali, a ritmo di musica classica, piani sequenza fissamente e avidamente avvinghiati ai protagonisti, inquadrature che originano da punti prospettici inauditi sono tutti mezzi attraverso i quali il regista riesce a veicolare l’opprimente strapotere che l’ingiustizia ha sia nei rapporti tra persone, che nei rapporti tra Stato e cittadino (soprattutto in quest’ultima componente).

Scenografia di Arancia Meccanica

Veniamo ora al comparto scenografico: con influenze estetiche di pura derivazione “pop art”, i colori colpiscono l’occhio dello spettatore con un’aggressività straordinaria. Sin dalla costruzione artistica degli arredamenti interni delle varie abitazioni, veniamo tempestati di immagini latrici di innumerevoli riferimenti di stampo sessuale, utilizzati sia come strumento per catturare e stimolare attivamente l’attenzione di chi guarda il film, che come
forte strumento di critica verso la tendenza progressivamente sempre più frequente a sfruttare l’immagine del corpo femminile come mero oggetto pubblicitario per carpire l’interesse del pubblico. Il bianco, tonalità normalmente associata al candore e alla purezza, diventa qui il colore prediletto per le divise dei drughi, quindi direttamente collegato all’esplosione incontrollata della violenza cittadina.

Scelta musicale

Doveroso poi menzionare la doviziosa cura nella scelta musicale che accompagna le diverse scene raffigurate: in “Arancia Meccanica”, la musica viene snaturata della propria essenza artistica per farne mero strumento di accompagnamento della depravazione e degenerazione dell’animo umano.

Brani classici di Rossini fanno da sfondo alle vicende rappresentate nella prima parte del film, in cui l’aggressività di Alex spadroneggia incontrastata nei confronti dei più deboli, mentre nella seconda metà, successivamente all’applicazione del trattamento Ludovico, il giovane si trova a combattere contro il suo più grande amore (la nona di Beethoven) che diventa motivo di disagio fisico e mentale per lui.

Infine, Singin’ in the rain di Gene Kelly diventa l’ideale colonna sonora per una sequenza di stupro passata alla storia. Il discorso di Kubrick vuole ancora una volta dissacrare la normale linea di pensiero del suo pubblico: l’Inno alla Gioia è in realtà inno all’ultraviolenza.
Un’ultima speciale menzione va anche fatta nei confronti dello straordinario lavoro attoriale di un giovanissimo Malcolm McDowell, nei panni di Alex de Large, estremamente disponibile a girare scene estremamente crude e calandosi perfettamente nella parte a lui assegnata.

Il significato di questa pellicola

Dopo questo lungo excursus puramente tecnico, diamo ora uno sguardo più approfondito al significato di questa fondamentale pellicola. Il titolo è già emblematico e chiarificatore in sé: nelle due semplicissime parole che lo compongono sono racchiusi tutti i 136 minuti di durata del film. Un’arancia meccanica è qualcosa che all’apparenza risulta normale e perfettamente inquadrato in un’ottica di realtà del tutto quotidiana, mentre al suo interno nasconde qualcosa di profondamente sbagliato e incongruente.

Un’arancia meccanica è ciò in cui si trasforma un uomo quando lo si priva del libero arbitrio, della possibilità di scegliere tra operare il bene o il male, con le conseguenze che ciò comporta (queste le parole del regista stesso). Allo stesso modo, il titolo rispecchia anche un celato messaggio di feroce critica verso le grandi istituzioni statali, così presenti verso i propri cittadini solo a livello superficiale, e pronte a privarli di qualsiasi mezzo di ribellione, pur di assoggettarli alle proprie necessità e ai propri interessi.

Finché l’individuo ricorre alla violenza per prendere ciò che vuole in maniera incontrollata, lo Stato deve agire annichilendo il suo libero arbitrio ed estirpando quindi la stessa condizione che distingue gli esseri umani, quando poi alla fine l’oppresso diventa potenziale pedina per diventare strumento dei poteri forti, allora la macchina statale si attiva per riabilitare la sua condizione di naturale oppressore dei deboli e degli indifesi, come chiaramente rappresentato nel finale del film.

Quindi appare netto e centrale il raffronto tra bestialità insita nell’animo umano (homo homini lupus, come sostenuto da Thomas Hobbes) e quella più stratificata e organizzata del potere costituito. Altra tematica di fondamentale importanza è la natura umana quale immediata espressione del libero arbitrio: ciò che differenzia i drughi dalle proprie prede, inizialmente, è proprio la volontà spassionata di agire per religiosa devozione verso la pratica dell’ultraviolenza. Il forte soverchia il debole, ed è ciò che costituisce l’andamento ordinario delle cose. Quando poi, in seguito all’annullamento di ogni possibilità di scelta personale, l’essere umano viene reinserito nel mondo dopo essere stato rieducato secondo i dettami dello Stato, egli stesso diventa preda del Mondo. Il rifiuto della violenza diventa causa e ragione per subirne. Il crimine si combatte privando l’essere umano della sua
implicita condizione esistenziale, mediante l’utilizzo di quella stessa ferina aggressività che si vuole debellare.

Il discorso filosofico che aleggia nella sottotrama della pellicola può anche essere esteso a un ipotetico tentativo di Kubrick di riportare sul grande schermo il classico “mito della caverna” di Platone: Alex, così come gli uomini incatenati all’interno della caverna, viene costretto a guardare le immagini proiettate dai propri aguzzini. Trovandosi poi in condizione di “supposta” libertà e venendo reintegrato nel mondo moderno, egli si ritrova incapace di
comprenderlo ed interagire con esso, per diventarne infine vittima inconsapevole.

Film che per immagini raffigurate e contenuti proposti colpisce lo spettatore come un inarrestabile pugno nello stomaco, “Arancia Meccanica” ha sin da subito diviso la critica a metà, tra chi lo elevò ai fasti della gloria artistica, e chi invece ne biasimò l’indiscriminato utilizzo di tematiche forti. Per me rimane uno dei capolavori imperdibili della settima arte, che non può essere banalmente semplificato con spicciole affermazioni riguardo alla violenza.

Curiosità

Piccola curiosità finale: il film di Kubrick non è la prima trasposizione del romanzo di Burgess, segnalo a tal proposito il titolo “Vinyl” di Andy Warhol (!) del 1965, immaginifica reinterpretazione sperimentale del soggetto da parte del celeberrimo artista. Recuperatelo!

Voto: 10

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