Welo a Sanremo Giovani con “Emigrato”: “Voglio il successo, ma senza lasciare il mio Sud” – Intervista

Welo

Una valigia chiusa di fretta, una casa lasciata alle spalle e la sensazione che restare, a volte, faccia più male che partire. Con “EMIGRATO”, Welo, all’anagrafe Manuel Mariano, trasforma un’esperienza collettiva in un manifesto generazionale: un racconto autentico, crudo, dove il Sud non è una cartolina ma un luogo che ti forma, ti spinge, ti costringe a reinventarti.

Dopo l’esibizione su Rai2 che lo ha portato tra i 12 semifinalisti di Sanremo Giovani 2025, l’artista salentino classe ’99 torna sul palco il 9 dicembre con un singolo che è già molto più di una canzone. È denuncia, è appartenenza, è identità.

Nell’intervista, Welo ci porta nel cuore di questo brano, nella sua storia e in quella della comunità che rappresenta: tra ironia, consapevolezza, radici e il sogno di farcela senza rinunciare a casa propria.

Intervista a Welo, cantante di Sanremo Giovani

Quando hai ricevuto la notizia di essere stato selezionato per Sanremo Giovani? Come hai reagito? Dov’eri e cosa hai provato in quel momento?

Ero nel mio letto, la mattina. È stato bellissimo, perché dopo il provino speravamo davvero in questa notizia. Quando è arrivata è stata una grande soddisfazione. La mia prima reazione è stata: “Ok, adesso andiamo dritti”. È stato un bel momento.

Grazie alla tua esibizione sei passato tra i semifinalisti. Come stai vivendo questo percorso? Cosa significa per te poterti esibire il 9 dicembre?

Lo sto vivendo molto carico e determinato. Mi sento spinto da una città intera. Per me rappresenta la voglia di riscatto, di rappresentare un ideale, un popolo, e di mandare un messaggio importante. Non vedo l’ora di salire sul palco martedì.

Il tuo brano si intitola Emigrato: racconta una partenza non scelta ma necessaria. Qual è stata l’immagine o l’emozione che ha acceso la scrittura del brano?

Non mi è servito molto per scriverlo: sono cose che viviamo ogni giorno. È una realtà che c’è sempre stata. Crescendo, però, ne prendi più coscienza e smetti di normalizzarla. Il brano l’ho scritto di getto, in 20 minuti. È stato spontaneo, di pancia—come un po’ tutti noi del Salento. È un brano davvero scritto “di pancia”.

Nel brano ci sono immagini forti: i trattori al posto dei grattacieli, il lavoro in nero, le famiglie che tengono tutto in piedi. Qual era il messaggio che volevi far arrivare al pubblico?

Il messaggio è: “Ok, alzo la mano: ci siamo anche noi”. Parla del sentirsi esclusi, sottovalutati, penalizzati dalle insidie della vita. Per chi vive giù ci sono fattori che ti fanno sentire spesso in difficoltà a livello di vita, economico, di scelte. Volevo raccontare questo.

C’è stato un momento in cui hai capito che il talento da solo non bastava per restare giù?

Ma io sono ancora giù! (ride) Certo, viaggio molto — ora ad esempio sono a Milano, perché alcune cose devi farle lì. Però io voglio spezzare una lancia: secondo me si può fare tutto anche da giù. La musica che faccio la sto producendo dal Sud e spero venga colta nella sua autenticità, che spesso si perde andando via da casa. Il mio sogno è coltivare un talento da casa propria e poter festeggiare una vittoria nel proprio territorio. È la cosa più bella.

Nel brano c’è anche tanta ironia, usata come forma di sopravvivenza. Quanto è importante nella tua vita?

Fondamentale. Noi siamo molto autoironici: nei problemi tendiamo a sdrammatizzare e a sorridere. È una costante della mia vita e credo valga per tutti. Se ci abbattessimo per ogni problema sarebbe frustrante. Sorridere è l’unica strada, come mi ha insegnato mio padre.

Nei videoclip coinvolgi spesso ragazzi dei quartieri popolari. Quanto è importante per te che la tua musica resti legata alle persone e alle storie reali da cui provieni?

Per me è fondamentale, quasi scontato. La mia musica nasce lì: la mia vita si è formata in strada, tra le persone. Non sono mai stato chiuso in casa a guardare la TV. Parlo di storie quotidiane, di me, di loro. Coinvolgere quel contesto mi viene naturale: è ciò che mi ha formato.

Hai già alcune collaborazioni importanti. Come hanno influenzato il tuo percorso e il modo in cui scrivi?

Dai grandi artisti devi sempre ispirarti e prendere il meglio. Ho collaborato con persone umili, appassionate, con una cultura del lavoro incredibile. Da loro ho cercato di “rubare” nel senso buono: ciò che ti fa crescere come persona e come artista.

C’è un featuring che sogni di realizzare?

Sì, mi piacerebbe tantissimo collaborare con Caparezza.

Sono usciti i nomi dei Big di Sanremo. Cosa ne pensi? C’è qualcuno che conosci?

Sì, c’è un mio grande amico: Eddie Brock. Gli auguro il meglio, è fortissimo e sono sicuro che si farà valere. Per il resto ci sono tanti artisti bravi, come ogni anno. Il Festival di Sanremo rappresenta il meglio della scena nazionale: sarà bello da vedere e interessante da ascoltare.

Se dovessi vincere Sanremo Giovani, a chi faresti la prima telefonata?

Alla mia famiglia: a mio padre e a mio fratello. Mi hanno sempre supportato e ci sarebbero tante cose da dire… la prima chiamata sarebbe per loro.

Negli ultimi anni molti artisti giovani si prendono una pausa anche dopo poco tempo di carriera. È qualcosa che ti spaventa o che hai messo in conto?

Penso che, come per la salute, bisogna ascoltare il proprio corpo. Non siamo robot: per fare musica devi vivere, sentire, provare emozioni. Non ho paura: ascolterò sempre il mio cuore e il mio cervello. Sono uno molto attivo, ma non escludo nulla. La vita va così.

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Con il nuovo anno mi auguro di realizzare un disco importante, un progetto che estenda il concept di Emigrato e che rappresenti ancora di più quello che sono. Sto dando tutto: speriamo bene.

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