Un mondo perfetto, recensione del Film di Clint Eastwood a Cura di Christian Fregoni

film un mondo perfetto

Clint Eastwood è un regista capace di un eclettismo raro e prezioso. La sua carriera lavorativa si espande ed evolve in un continua ricerca di tematiche e stili più disparati: vediamo toccare opere di stampo più prettamente western, film incentrati sulla muscolarità e la virilità di eroi senza macchia e senza paura e infine produzioni più sconsolate e disincantate sull’illusorietà e effimera vacuità dell’ideale tipicamente americano del sogno provvidenziale di una vita migliore.

È all’interno di quest’ultima categoria che va ad inserirsi “Un mondo perfetto”, pregiato gioiellino finemente cesellato da Eastwood nel 1993, coadiuvato dal soggetto e sceneggiatura scritti da John Lee Hancock.

Recensione Un Mondo perfetto, film del 1993 con la regia di Clint Eastwood

Film di fuga e caccia all’uomo atipico, in cui i meccanismi dell’azione e della tensione lasciano spazio all’ampio respiro richiesto dalla caratterizzazione dei personaggi, e l’impronta registica rimane impressa ai posteri, come la traccia di uno stivale su una strada fangosa. Eastwood non esita a criticare pesantemente, con la sua distaccata partecipazione, tutto ciò che l’America rappresenta sulla carta: un grosso vaso di Pandora pieno di violenza, ingiustizia e prevaricazione, impreziosito dalla più sfavillante confezione regalo. Un’indorata pillola che non può che rimanere indigesta, una volta ingerita.

La trama del film “Un mondo perfetto”

La storia si ambienta in Texas, a Dallas nel 1963. Due settimane prima che il presidente John F. Kennedy fece la sua funesta visita nella città, i criminali Butch Haynes (Kevin Costner) e Terry Pugh evadono da un carcere. Durante la fuga, dopo aver fatto irruzione in un’abitazione, prendono in ostaggio il piccolo Philip Perry.

Sulle loro tracce si mettono il texas ranger Red Garnett (Clint Eastwood) e la sua compagine investigativa, supportata per il caso in questione dalla criminologa Sally Gerber (Laura Dern).

Dopo essersi sbarazzato del violento e imprevedibile Terry, Butch e Philip riprendono il disperato tentativo di lasciarsi alle spalle una vita di fallimenti e negazioni (la mancanza di una figura paterna di rilievo per entrambi, le deviazioni criminali di Butch e la privazione di tante prerogative fondamentali per la crescita di un bambino, dettate dalla rigida imposizione religiosa da Testimone di Geova della madre di Philip), per poter iniziare una nuova crescita reciproca in Alaska. Si instaura quindi un ideale rapporto genitore-figlio tra i due, fino alla conclusione amarissima che tratteremo in seguito in un capitolo a parte.

La recensione di Christian Fregoni, il “Bagnino” di Caduta Libera

Difficile inquadrare “A perfect world” in un semplice catalogazione di genere: è un action movie? Per niente, l’azione viene completamente eclissata dalla costante ricerca di Eastwood di far vivere e parlare i propri personaggi, di fargli provare tutto ciò di cui sono stati privati ingiustamente per altrui volere. È un tipico thriller d’evasione? Neppure.

Manca quasi totalmente la crescita tensiva dettata dei serratissimi meccanismi che compongono il tipico svilupparsi di un film di caccia all’uomo. La squadra di ricerca dell’evaso sembra quasi partecipare alla vicenda da semplice spettatrice occasionale, senza avere un vero ruolo attivo fino all’epilogo della storia. Se proprio si vuole necessariamente affibbiare una categoria di appartenenza, si potrebbe dire che questo film è essenzialmente un drammatico sporcato dalle amare riflessioni sulla società americana e le sue implicazioni morali, che solo Clint Eastwood sa rendere.

Coloro che all’inizio del film sembrano rappresentare due esseri umani profondamente antitetici (un criminale evaso e un innocente bambino) si scoprono essere più simili e legati di quanto si possa immaginare. Il Butch di Costner ha vissuto un’infanzia e un’adolescenza atipiche, privato della possibilità di crescere in un ambiente amorevole a causa delle tendenze criminali del padre. Il piccolo Philip vive invece tra le benevole cure della madre, senza mai aver conosciuto il proprio padre, ma al contempo impossibilitato dal vivere tutte le normali esperienze formative che ci si aspetterebbe da un bambino di otto anni, a causa della rigida osservanza religiosa materna.

Due facce della stessa medaglia, quindi, che si completano l’un l’altro: Costner cerca di riparare alla mancanza di una figura paterna per il bambino e contemporaneamente si immedesima in lui, per la sua infanzia fallita. L’atmosfera che si respira dall’inizio alla fine è quindi distesa e idilliaca, in netto contrasto con ciò che si potrebbe desumere dall’evolversi della vicenda. Ciò che inizialmente sembra un rapimento per facilitare la fuga dalle autorità, diviene presto una vera e propria fuga verso una speranza di vita futura migliore. Un tentativo di ripartire da zero, lasciandosi il passato alle spalle, a bordo di una macchina del tempo che può frenare o accelerare a piacere.

Quello che più rimane impresso, a mio avviso, è il sottotesto interpretativo che Eastwood vuole dare all’intera storia, andando a sondare sia l’animo umano dei suoi personaggi, da regista, che a prendere parte al grande inganno, da protagonista. Il suo Texas Ranger Red Garret è un buono onesto ma disilluso, che sa perfettamente quanto il mondo sia dominato dalla violenza e dall’ingiustizia, irrimediabilmente radicata anche in quegli ambienti che la dovrebbero rappresentare o tutelare.

Al contempo, l’idea stessa di svolgere l’avvicendamento degli eventi nel Texas del 1963, anno in cui la storia fu scossa dall’assassinio di John F. Kennedy, non è affatto un caso: il culmine della distruzione del sogno americano è tutto qui, agli occhi del regista, una società dove viene a mancare il proprio “padre putativo”, un mondo (illusoriamente) perfetto per i protagonisti del film.

**ATTENZIONE SPOILER**

Veniamo ora al meraviglioso finale che rappresenta la degna pietra angolare per comprendere e suggellare il significato dell’opera.

Dopo aver preso in ostaggio una famiglia di afroamericani, la vicenda prende una svolta indesiderata e Philip spara a Butch, scappando poi in un campo. In una evocativa sequenza finale di “inseguimento” e rappacificazione tra i due, il criminale viene insensibilmente freddato da un cecchino, che male interpreta un suo gesto. Sotto gli occhi attoniti di Garnett (resosi conto dell’assoluta impossibilità di offendere dell’evaso, e dell’anomalo rapporto padre-figlio instaurato tra rapitore e ostaggio) e dell’ancora più sconvolto Philip, straziato per aver realizzato di aver appena perso l’unica figura paterna mai avuta nella vita, Butch muore consapevole che la possibilità di iniziare una vita migliore in Alaska poteva solo esistere in un utopico mondo perfetto: un mondo in cui non esistono padri che vengono meno alle proprie responsabilità genitoriali, un mondo in cui i bambini non vengono privati della possibilità di sognare e crescere, un mondo in cui la giustizia non contribuisce a creare i mostri a cui da la caccia (l’epilogo è a tutti gli effetti un omicidio legalizzato), un mondo in cui il 22 Novembre 1963 a Dallas non venne a mancare una delle figure più importanti della Storia Contemporanea.

Voto: 8

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