Romina Falconi: “Rottincuore è un piccolo miracolo. Ho goduto nel vedere Brunori e Lucio Corsi in top 3 a Sanremo: il pubblico comincia a cercare autenticità” – Intervista

Romina Falconi foto M Piraccini
Romina Falconi foto di M. Piraccini

ROTTINCUORE, terzo album di studio di Romina Falconi. Un concept album composto da 13 brani, anticipato dai singoli “La Suora“, “Lupo Mannaro“, “Maria Gasolina“, “La Solitudine di una Regina” e “Io Ti Includo“. Un viaggio nella psiche umana, dove ogni brano esplora un atteggiamento estremo e presenta una galleria di peccatori, personaggi segnati da ombre, vizi, disturbi e sindromi ben in vista. L’album, scritto e composto da Romina Falconi, è stato prodotto da Niccolò Savinelli e Leonardo Caminati, con la partecipazione alla co-scrittura di Roberto CasalinoImmanuel Casto, suo partner in Freak&Chic, che ha curato anche il progetto grafico. Alla produzione hanno collaborato anche Marco Zangirolami, Francesco Katoo Catitti, Matteo Urani, Jason Rooney e Nicco Verrienti. “Rottincuore” è un progetto artistico e multidisciplinare che unisce la musica, la scrittura, l’illustrazione, l’antropologia e la psicologia per esplorare la complessità della mente umana.

Dal progetto infatti prende vita ROTTINCUORE – IL DISCOFILM, nato da una sceneggiatura originale di Romina Falconi e Marta Monsellato, con la regia di Niccolò Savinelli, mescola scrittura teatrale, cinema, musica e performance, con l’estetica cruda e lirica che da sempre contraddistingue la cantautrice romana. Un cast di attori e attrici accompagna l’artista in un viaggio emotivo e grottesco, dove il dolore si trasforma in arte e l’autobiografia si fonde con l’immaginazione, dando vita a un racconto che è al contempo personale e universale, reale e simbolico.

Romina Falconi – Intervista

“Rottincuore” è un viaggio dentro l’ombra, un concept album che racconta fragilità, peccati e disordini interiori. Come nasce l’idea di questo progetto così complesso e coraggioso?

Nel 2018 ho creato un Centro d’Ascolto e nel tempo è diventato sempre più frequentato, al punto che ho chiesto alla mia amica psicologa, Monia D’Addio, di essere una presenza costante. Questo è stato un esperimento sociale molto potente: le persone si ascoltano con molto rispetto, tutti possono intervenire — non solo la psicologa — e si condivide di tutto. Ho capito che il pubblico che mi ha scelto, pur essendo vasto e composto da individui completamente diversi, aveva in comune la consapevolezza di avere un’ombra — ognuno la sua — e che, tornando a casa, nonostante l’inclusione di cui si parla tanto sui social, avesse la sensazione di non sentirsi a proprio agio in questo mondo che bada molto più alla forma che alla sostanza. Nel tempo mi è venuta voglia di maneggiare queste ombre, con molto rispetto, e di renderle le protagoniste delle canzoni di Rottincuore. Ne è uscito un concept album che non è altro che una galleria di risse interiori, quelle che tutti abbiamo dentro. Il viaggio è stato lungo, divertente e anche molto doloroso, ma ne è valsa la pena. Dopotutto, io non sono tipa da cose semplici. Se c’è una cosa che proprio mi manca è il senso della misura. Ho deciso di esaltare tutto ciò che nel pop viene nascosto sotto il tappeto.

Hai dichiarato: «Mi ostino svergognatamente a innamorarmi delle creature che devono ricominciare tutto da capo». Quanto c’è di autobiografico nei personaggi che racconti?

Tantissimo. Un cantautore, per me, è qualcuno che va cercando risposte e quasi mai le trova, ma provando a scrivere crede di poter restituire una piccola carezza alle proprie oscenità. Sublimare è una magia. I capitoli che mi hanno fatto tremare erano proprio quelli che mi facevano sentire troppo esposta, quasi nuda in una piazza, ma è bello rischiare, soprattutto se sai che stai facendo una cosa che ti piace tanto. Il capitolo della depressione mi ha davvero messo in crisi perché l’ho provata: è durata mesi ed è stata così soverchiante che mi ero promessa di parlarne. Anche solo perché lì fuori, mi sono detta: “Qualcuno spero capirà cosa sto dicendo”. Non volevo rendere il personaggio stucchevole, né volevo fosse uno di quei racconti in cui la morale buonista viene fuori come un rutto in una recita. Perché, per quanto io sia sensibile, ho capito una cosa tremenda di me, Nunzio: non sopporto il bisogno di cavalcare la positività tossica che hanno in tanti nel mondo del pop. La depressione è un incantesimo orrendo. Inutile mettere i fiocchetti al dolore. Si deve dire la verità, sempre.

Ogni brano sembra un caso clinico narrato con empatia e crudezza. Hai lavorato fianco a fianco con psicologi, antropologi, illustratori… Quanto è stato importante questo approccio multidisciplinare?

Tantissimo. Con la sindrome dell’impostore che mi ritrovo, ho speso un patrimonio in saggi di psicologia e psichiatria, ma i miei studi non sarebbero mai bastati al piccolo giudice tiranno che giace dentro di me. Ho seguito il consiglio di mia nonna: “Circondati sempre di persone migliori di te, almeno impari”. E così ho fatto: ho amici come Elena Nesti, antropologa e sociologa; uno psichiatra che si chiama David Trovato; psicologi e psicoterapeuti come Monia D’Addio e Corrado Schiavetto. Sono i miei preziosi amici perché hanno deciso di aiutarmi davvero. Poverini! Li ho riempiti di domande, ho fatto loro una specie di interrogatorio frizzantino. Avevo bisogno di creare un disco consapevole, di sentirmi pronta a maneggiare queste ombre con i guanti, senza rinunciare al mio lato grottesco. Perché alcuni capitoli sono tristissimi, ma in altri ho cercato di non boicottare mai l’ironia e la cattiveria.

Il discofilm “Rottincuore” è un’opera potente, viscerale, poetica. Come è stato il passaggio dalla musica al linguaggio cinematografico e teatrale?

È accaduto un piccolo miracolo. Ho chiesto a tanti produttori di intervenire, ma quelli che hanno arrangiato gran parte delle canzoni sono Leonardo Caminati e Niccolò Savinelli. Quest’ultimo è un genio e un regista bravissimo. Un giorno mi fa: “Ma visto che sono tutti soggetti molto interessanti, perché non li mettiamo in una serie o in un film?” Lo diceva scherzando, ma io l’ho preso sul serio e ho chiamato tutti i miei amici attori. Non volevo sembrare una cineasta ‘wannabe’, e allora ho creato il Discofilm: qualcosa cucito sul progetto, che non assomigliasse a nulla in circolazione. Abbiamo fatto diversi sold out che mi hanno fatto piangere di gioia, perché — diciamolo — non era mica scontato che una cantautrice fosse seguita anche per qualcosa di così diverso. Al mio pubblico ho chiesto di venire al cinema promettendo una piccola follia creativa. Non sapevano cosa aspettarsi, me lo hanno detto. E poi vederli contenti mi ha dato una pace mai provata prima. Tutto è merito di Marta Monsellato, che è una sceneggiatrice e mi ha seguita passo dopo passo. Ora ci stanno chiamando anche altri cinema e altre realtà che hanno deciso di adottarmi. Nunzio: io due anni fa non mi sarei mai aspettata di vivere questa avventura pazzesca!

Il film non sarà disponibile online. Cosa significa oggi, nell’epoca dello streaming, scegliere un’esperienza intima e dal vivo come questa?

Certe cose è bello condividerle di persona, con uno schermo gigante davanti e un audio perfetto, insieme. Per metterla online ci vuole un minuto, ma io voglio che viva il più possibile. Questo streaming comincia a pesarmi — e lo so che sto dicendo una cosa folle — ma è tutto troppo veloce: la musica viene trattata come un pannolino. Mi dispiace, ma è così. Dopo cinque anni di sacrifici, lavoro, sangue buttato sul foglio, ho capito che se non sei il diamante di punta di una major, perché dovresti seguire l’iter di una major? È come se da domani tutti fossimo schiavi di un negozio musicale che punta solo al pubblico di quattordicenni, e continuassimo a mendicare streaming in quel negozio digitale, senza pensare che la strada si trova sempre, basta studiare. La famosa frase di Einstein: “Se giudichi un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, passerà tutta la vita pensando di essere stupido.” Ecco. Va bene lo streaming, ma meglio una via difficile… ma mia.

Hai lavorato con artisti come Roberto Casalino e Immanuel Casto, tuo partner anche in Freak&Chic. Come sono nate queste collaborazioni e cosa hanno portato al disco?

Con Immanuel è nato tutto perché avevamo lo stesso manager, quindi… in un modo davvero poco poetico. Col tempo siamo diventati preziosi amici. Abbiamo fondato la nostra etichetta perché non volevamo aspettare una manna dal cielo che non sarebbe mai arrivata — per due poco maneggiabili come noi. Dopo dodici anni di Freak&Chic, siamo qui che facciamo davvero tante cose, e non potevo trovare complice migliore. Roberto Casalino, invece, è stato proprio un dono del cielo. Una di quelle occasioni in cui Dio butta un occhio e dice: “A questa bionda rimbambita e visionaria, diamole una carezza”. Roberto è un buon partito, come si dice a casa mia. È uno che scrive melodie e testi immortali per mostri sacri. Non era affatto scontato averlo come complice. Tutto è merito del suo enorme cuore. Ha sposato la causa, ha capito tutto di me, manco fosse un parente — di quelli preziosi. Mi ha dato due ali stupende. E non quelle mie di cera. Quelle vere. Non posso che essere grata ogni giorno per averlo nella mia vita come alleato e amico.

A livello di sound, il disco è ricco e stratificato. Quali scelte hai fatto in fase di produzione e cosa volevi che emergesse a livello sonoro?

Grazie per la domanda, perché ci tengo tanto. Devi sapere che sono un pelo maniacale. Perché fare un disco oggi è un privilegio, e nulla deve essere lasciato al caso. Siccome le ombre protagoniste sono tutte diverse, volevo che anche i suoni lo fossero, completamente. In Disturbo ossessivo c’è una chitarra cantilenante, e a un certo punto abbiamo chiamato un mandolinista (Matteo Calza): volevamo un mix folk/pop/elettronico. In Rottincuore Lacrimosa, il testamento di tutti loro, ho registrato tutti i cori con un mood quasi lirico — doveva essere solenne, come il giorno in cui vedrò San Pietro e gli dirò: «Ma se mi ci avete messa voi in un tailleur di dolori e lacrime, che avrei dovuto fare? Anzi: dovevo peccare molto di più…» In Sono felice volevo ricreare il mondo malinconico e valzereggiante del circo. Dovevo essere scanzonata e goffamente triste. Ecco, per me lavorare a tutte queste “pozioni musicali” è stato pazzesco.

Ogni brano è il ritratto di un “peccatore”. Ce n’è uno in cui ti identifichi più degli altri, o che è stato particolarmente difficile da scrivere?

Nessuno ti ama è stata una coltellata lentissima, per me. Ho vissuto la depressione per qualche mese. L’ho superata con il lavoro su me stessa e con la terapia. Volevo a tutti i costi raccontare come ci si sente, senza rendere tutto stucchevole. Quella canzone ha due chiavi di lettura, e ognuno ci legge ciò che ha vissuto: come spettatore o come protagonista. È stato prima disumano, e poi salvifico. Perché la depressione, quando arriva, ti cristallizza come negli incantesimi. Altra canzone difficile è stata Sono felice, La sindrome di Pollyanna. Quando ti ostini a prendere le parti belle cdi cose che sinceramente sono tristissime e tossiche. Mi hanno preso per una scema spesso, per il mio modo di ridere sempre. Vai a spiegare che pure quella è una specie di armatura, perchè quelli come me, se smettessero di fare gli scemi leggeri e iniziassero a piangere, ti allagherebbero casa…

“La suora”, “Lupo Mannaro”, “Maria Gasolina”… titoli fortissimi e quasi teatrali. Qual è il processo creativo che ti porta a costruire questi personaggi?

Molto semplice: per me il trucco è scrivere pensando che quella canzone non uscirà mai da quella stanza e che non la sentirà mai nessuno. Questo mi aiuta, perché mi permette di non censurare nulla: né la cattiveria, né i pensieri feroci, né l’ironia, che molto spesso fuori potrebbe essere letta come disturbante. Per me il titolo è fondamentale: vale quasi il 40% del brano. Ovvio, poi non basta un titolo per svoltare tuttoo Ma è bello creare senza pensare a nient’altro che quello che vuoi davvero dire. Senza stare troppo a farsi problemi.

Da sempre lotti contro ogni forma di discriminazione e dai voce agli emarginati. Pensi che oggi, nel mondo della musica italiana, ci sia ancora poco spazio per le narrazioni “scomode”?

Oggi c’è spazio per un modello che, purtroppo, non esiste più. Ma ancora non se ne sono accorti, questi luminari della discografia. Ho una teoria: si sta emulando il modello degli influencer di cinque anni fa (che ormai non funziona più neanche per loro). Lo scopo è dare un percepito di potere a un artista. Nel mondo della musica generalista stanno spingendo come “potenti” molti artisti che, tra due anni, dopo essere stati spremuti come limoni, verranno scambiati con altri più giovani e più bravi. Ho goduto nel vedere Brunori e Corsi in top 3 a Sanremo: finalmente il pubblico comincia a cercare autenticità, e si è un po’ stufato dei progetti interscambiabili. Il problema è che, dopo il Covid, molte realtà sono saltate e i medi-piccoli faranno sempre più fatica ad emergere. Nunzio, una volta con un milione di dischi venduti ti compravi un casale in Toscana. Oggi, con un milione di streaming, se ti arrivano quattrocento euro, è già tanto. Devono cambiare molte cose. Sarà fondamentale anche il contributo del pubblico: perché è vero che il pubblico può solo dire se qualcosa gli piace o no, ma è altrettanto vero che la rivoluzione arriva quando si cerca qualcosa di diverso dalla solita minestra. Sono fiduciosa, perché questo medioevo “feticista” dei numeri (che non portano a nulla) non può essere la risposta appagante che stiamo tutti cercando.

“Rottincuore” sembra anche una denuncia sociale sotto forma d’arte. Qual è il messaggio che vuoi far arrivare a chi si sente dalla parte sbagliata della vita?

Che ogni tanto è bene elogiare l’impenitenza. Che ci muoviamo con le maschere, ma tutti abbiamo bisogno di sentirci compresi nel profondo. E che stiamo vivendo male per morire bene, attenti solo a schivare il dolore come fosse un proiettile. Ma lo scopo non è evitare il dolore: è non sprecarlo. E che non esiste vita senza peccato. Che il peccato va compreso. Che la vita non te la scegli, ma devi fare del tuo meglio. E che, se arrivi a fine corsa e non ti sei fatto spezzare il cuore almeno una volta… che hai campato a fare? Ecco: non risparmiarsi.

“Rottincuore” è un progetto imponente e totalizzante. Dopo un’opera così, come immagini il tuo prossimo passo artistico?

Non lo so. Ho in mente un paio di idee, ma sono abbastanza nebulose al momento. Il Discofilm mi sta facendo venire una voglia matta di seguire un corso di sceneggiatura. Non so cosa sarà di me (e forse qualcuno potrebbe vedere questa incertezza come una debolezza) ma penso sia il bello di questo lavoro, così difficile e vertiginoso: non puoi dare mai nulla per certo. Tanto la creatività ce l’ho, continuerò ad andare in guerra con lo scolapasta in testa al posto dell’elmetto. Continuerò a costruire gli aquiloni mentre vanno in giro coi carriarmati. Ma non mi voglio arrampicare sugli alberi, sono un cavolo di pesciolino, continuerò a cercare qualche oasi, un bel laghetto, un oceano, e che madonna: una fontanella. 

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