The Wolf of Wall Street: recensione, analisi e trama del Film a Cura di Christian Fregoni

Leonardo di caprio

The Wolf of Wall Street, due parole: Martin Scorsese. Ma anche Leonardo DiCaprio, Jordan Belfort, Wall Street e Grande Cinema. Sì, perché di Cinema con la C maiuscola si può solo parlare, quando si ha a che fare con opere di tale portata. Affidarsi alle sapienti mani di un maestro vero della Nuova Hollywood può solo che portare alla creazione di un lavoro magistrale, impresso per sempre nello sfarzoso e lucente etere della storia della settima arte.

Prendendo spunto dalla testimonianza scritta della vita spregiudicata di Jordan Belfort, ambizioso broker senza scrupoli della New York anni ’80, Scorsese crea un lavoro pomposo, rutilante e lisergico in ogni sua inquadratura, ben riproponendo lo spirito del personaggio stesso.

Allontanandosi con artistica prepotenza, e sapientemente a mio avviso, dall’atmosfera di religiosa sacralità che pervade certi tipi di biopic (ovvero film che narrano la vita di personaggi realmente esistiti), il regista ci regala la sua personale interpretazione delle gesta di un depravato Robin Hood moderno, spinto dalla perversa brama di potere che solo il dio denaro può dare, dalla sua sfolgorante ascesa fino all’inevitabile e rovinosa caduta finale.

The Wolf of Wall Street: la trama

New York, anni ’80. La quotidianità è dominata dall’imperioso stile di vita dettato dal capitalismo. Il consumismo governa il mondo in ogni suo aspetto ed è qui che prende atto la carriera lavorativa di Jordan Belfort. Apprendista broker presso una grossa compagnia di investimenti, il giovane viene presto introdotto alla frenesia totale del lavoro dal suo eccentrico mentore Mark Hanna.

Il giorno della sua effettiva assunzione però la Borsa gioca il suo tiro più meschino e brutale, facendo vivere all’economia americana il cosiddetto “Lunedì nero”. L’ambizione di costruirsi un nome a Wall Street è presto abbandonata, ma la voglia di non condurre una vita dominata dalla povertà motiva il giovane Jordan a spingersi in un progetto prima mai considerato.

Decide così, dopo un breve periodo di gavetta e introduzione al mondo delle “penny stock” (azioni di compagnie di entità irrilevante, con uno spread elevatissimo, per cui si può ottenere un ricavo del 50% sulle commissioni), di entrare in società con l’eccentrico Donnie Azoff e aprire la Stratton Oakmont, sua personale agenzia di investimenti con la quale può truffare liberamente clienti assai facoltosi.

I guadagni sono enormi e assieme a grossissime quantità di denaro, circolano liberamente anche sconfinati quantitativi di ogni tipo di droga. L’eccesso domina la vita degli impiegati della Stratton sia in ambito lavorativo che nel privato, cosa che porta presto la società ad essere sempre più bersagliata dall’interesse dell’FBI.

Nel frattempo, Jordan perde interesse nei confronti della moglie per intessere una focosa relazione amorosa con la bellissima Naomi Lapaglia, che sposerà in seconde nozze e da cui avrà due figli. Il punto di non ritorno verrà raggiunto quando, dopo la decisione di entrare nel mercato azionario, quotando in Borsa le azioni dello stilista Steve Madden, il “Lupo di Wall Street” (questo il soprannome affibbiatogli dalla rivista Forbes) si trova costretto a spostare i suoi illeciti proventi su un conto svizzero. Il tracollo giunge rapido ed inevitabile e la rovinosa caduta di Belfort comporterà la perdita di tutto ciò che aveva compulsivamente guadagnato, del proprio idillio amoroso e della società in cui lui aveva riposto ogni sua speranza di vita futura.

Recensione del film The Wolf of Wall Street

Alla sua quinta collaborazione all’attivo, il consolidato binomio Scorsese/DiCaprio si rivela più che mai vincente in quest’opera maestosa sull’affascinante e proibita bellezza dell’immoralità. Il regista tesse i fili e orchestra sapientemente lo spettacolo di una banda di caotici finanzieri baracconi, dediti più ai piaceri carnali e psicotropi che alla normalità della vita quotidiana. Tutto è spinto all’eccesso, tutto è regolato da un’irrefrenabile smania di potere e guadagno, la moderazione non è una parola presente nel vocabolario di Jordan Belfort e lo si capisce perfettamente sin dall’inizio.

Con un’ouverture d’antologia in cui un povero nano viene scagliato contro un bersaglio dallo stesso Belfort, Scorsese ci catapulta arrogantemente nel suo fantastico mondo. La narrazione è dominata dalla prima persona, quasi a reiterare l’istrionica necessità di “Wolfie” di primeggiare in qualsiasi ambito della vita, pure su gli occhi di chi lo sta guardando.

Sì, perché lo spettatore non può fare a meno che seguire sbalordito e affascinato le iperboliche e stravaganti gesta di questo eroe corrotto dalla depravazione. Il bisogno incalzante di avere sempre più immagini di cui nutrirsi crea nel cervello di chi guarda quasi una sensazione di profonda dipendenza cinematografica.

Perché, in fondo, di dipendenza parla il film per la sua totalità: da alcool, droghe, sesso, potere, ambizione e denaro. Nessuno di questi elementi può sopravvivere senza essere morbosamente incatenato all’altro, in questo mondo di folli sopra le righe. Ogni ingrediente deve essere freneticamente mescolato in un cocktail esplosivo dal sapore paradisiaco, ma dagli effetti a lungo termine catastrofici.

Jordan viene iniziato all’edonismo totale degli yuppies anni’80 dal guru Mark Hanna, un superlativo Matthew McConaughey, perfetta rappresentazione dell’onanistico bisogno di guadagno personale, che lo introduce alle due uniche realtà di vita che possono sostenere la professione del broker: il sesso e la cocaina.

Il mondo di Belfort viene quindi travolto da una vorticosa spirale di inverecondia, nella quale viene inevitabilmente coinvolto anche tutto il suo team lavorativo, sontuoso circo delle efferatezze, e in senso lato anche noi spettatori ne sentiamo la morbosa attrazione centripeta.

Le immagini ci colpiscono violente e implacabili, incastrandosi in scene che passano agli annali della cinematografia: il già citato pranzo/lezione di vita con il mentore McConaughey, gli assurdi festini aziendali a premio di settimane lavorative proficue, i discorsi da “santone della finanza” di un indiavolato quanto sopra le righe Belfort per motivare i suoi adepti, e la spettacolare e irresistibile sequenza post assunzione del “sacro Graal” tra tutti i qualuud (la droga di cui sono fortemente dipendenti Jordan e Donny) in cui ogni parvenza di umanità viene annullata fino all’arrivo provvidenziale della cocaina, che assurge a elemento salvifico come gli spinaci per Braccio di Ferro.

A dare ordine a questo marasma caotico primordiale insito nell’animo umano è il demiurgo pantocratore Scorsese, la cui macchina da presa è unico appiglio vitale per non distaccarsi dalla realtà. La regia si muove fluida e stilisticamente impeccabile, merito anche della sontuosa sceneggiatura di Terence Winter e dell’ancor più sopraffino montaggio della storica collaboratrice Thelma Schoonmaker a cui il regista dà totale libertà d’espressione e ampio spazio per respirare.

Capolavoro assoluto del cinema mondiale

Il risultato è un capolavoro assoluto in cui il Cinema è unico mezzo possibile per sviscerare la mentalità deviata di chi vede il mondo come il proprio parco giochi personale. Le inquadrature danno il ritmo al film e al contempo ne sono profondamente succubi; placidi e sinuosi movimenti di macchina si alternano ad adrenalinici momenti di crescendo chiassoso e incontrollabile e si concretizzano nella creazione di un assuefacente spaccato sulla vera natura umana, carnale e belluina.

Personaggio chiave e perfetta cavia per i meccanismi dell’arte è il Jordan Belfort di un monumentale Leonardo DiCaprio. Capace di passare da momenti di tenero pathos amoroso a sprazzi di lucida follia nichilista nello stesso tempo che impiegherebbe una sostanza stupefacente a fare effetto, non si può fare a meno che parteggiare e partecipare attivamente alle travolgenti gesta di questo deviato “bravo ragazzo” (per rifarsi a un altro titolo del maestro), in bilico tra gli atti di una commedia fracassona, i drammi del sentimentale e il rigore stilistico del biografico.

Il denaro, vero ed unico motore dell’azione, spinge il protagonista a sfiorare l’empireo mondo della gloria eterna e del potere assoluto, per poi fracassarsi tragicamente al suolo, fino ad essere costretto a strisciare per potersi muovere, in un ineluttabile circolo vizioso già scritto sin dall’inizio.

A fare da comprimari a DiCaprio, troviamo una schiera di attori in stato di grazia: Jonah Hill, nel ruolo di Donny Azoff, veterano di un certo tipo di commedia per adulti e per questo naturale spalla conseguente per assorbire e incrementare la dissolutezza di Belfort; Margot Robbie, praticamente esordiente sul grande schermo, nel ruolo della stupenda modella Naomi, che spicca non solo per l’illegale e assurda bellezza esteriore, ma anche per qualità recitative e intensità drammatica; il già menzionato Matthew McConaughey che, nonostante la brevissima parte, non cade nella marginalità di una comparsa, in quanto i suoi dettami aleggiano sempre nell’aria, man mano che lo spettatore ripercorre la vita di Belfort.

Martin Scorsese firma un altro capolavoro con The Wolf of Wall Street

Con “The Wolf of Wall Street” il regista firma un’altra favola amara priva di morale, perché non ci può essere redenzione alcuna, anche se nel finale vediamo Belfort esercitare la sua innata dote oratoria in un seminario gremito di avidi e affamati astanti, così come lo siamo stati noi per tutti i 180 minuti della pellicola.

Perché il mondo di Martin Scorsese ruota secondo i seducenti e pericolosi meccanismi del lato oscuro dell’animo umano, popolato da individui dalla dubbia o inesistente moralità, e allo stesso tempo incredibilmente affascinanti, e non c’è alcun bisogno di trovare una forma di giustificazione etica alle immagini raffigurate, poiché a dar loro peso c’è l’amara constatazione che la realtà è sempre più nera e perversa di quanto lo sia la finzione.

Voto: 9

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