Sentieri selvaggi, analisi e recensione del Film a cura di Christian Fregoni

Sentieri Selvaggi film

Basterebbe solo questa semplice affermazione di un regista leggendario quale John Ford, per riassumere alla perfezione la concezione stessa di “Sentieri selvaggi”. È il 1956 e Ford decise di prendere in mano la lavorazione del romanzo “The Searchers” di Alan Le May, aiutato dalla magnifica sceneggiatura dello storico collaboratore Frank S. Nugent, stravolgendone quasi completamente l’idea di base e decidendo di affidare al “Duca” John Wayne il ruolo per cui è universalmente più apprezzato.

La storia del film Sentieri Selvaggi

La storia in sé è molto semplice: Ethan Edwards (John Wayne) è un reduce della guerra di Secessione americana. Tornato a casa dopo tre anni dalla fine del conflitto, si riunisce momentaneamente all’amata famiglia, giusto il tempo per vedersela portare via tragicamente a seguito di un improvviso ed implacabile attacco da parte di un gruppo di pericolosi indiani Comanche.

Dopo il rapimento della giovane nipote Debbie (Natalie Wood) da parte dei nativi americani, capeggiati dal feroce capo Scout (impietosa traduzione italiana dell’originale “Scar”), Ethan decide di seguirne pedissequamente gli spostamenti, spinto da un inesorabile sentimento di vendetta. Aiutato dal giovane Martin Powley (Jeffrey Hunter), la coppia tallona la tribù Comanche per 10 lunghi anni riuscendo infine ad entrare in contatto col Capo Scout.

In questo momento i due si rendono conto che Debbie è ormai entrata a far parte dell’entourage di mogli e l’odio di Ethan prende il sopravvento, sublimando nella meravigliosa sequenza finale, di cui è meglio non svelare troppo onde evitare di privare il film della sua magia peculiare.

Recensione film Sentieri Selvaggi: Mi chiamo John Ford, faccio western

Capolavoro! Non esiste parola più azzeccata per descrivere l’incredibile anticonformismo di questo classico western all’americana, che di stampo classico ha solo l’esteriorità dell’immagine. Ci troviamo di fronte a un’opera fondante della carriera di Ford (già costellata di altri lavori eccellenti quali “Ombre rosse”, “Furore”, “Come era verde la mia valle”, tanto per citarne alcuni), in cui ormai la disillusione del mito del sogno americano è palpabile in ogni singola scena.

Il West è popolato di esseri umani trasportati dai più naturali istinti belluini, senza necessariamente essere eroi senza macchia e senza paura.

Dopo la straordinaria scena d’apertura, in cui lo spalancarsi di un uscio rivela l’immensità mozzafiato della Monument Valley (iconico paesaggio divenuto ormai simbolo dello scenario da Far West), veniamo a fare la conoscenza di Ethan Edwards, un John Wayne in stato di grazia.

Forte di una caratterizzazione studiata fin nei minimi particolari, il personaggio di Wayne è quanto di più atipico ci si potesse aspettare da un tipo di cinema ormai già canonizzato. Edwards è un uomo cupo, rozzo, rancoroso e volgare. Capace di provare solo odio per l’acerrimo nemico Comanche, egli si fa carico di un desiderio vendicativo dettato non solo dalla necessità di farsi giustizia per lo sterminio della sua famiglia.

In un’astuta e sfuggevole inquadratura ambientata in un cimitero, Ford ci regala un indizio rivelatore per meglio comprendere la dubbia ed enigmatica morale del protagonista: su una lapide vediamo inciso il nome della madre di Edwards, brutalmente assassinata dai suddetti nativi americani. Ed ecco che finalmente ci sono chiare le motivazioni che spingono l’antieroe a perseguire il suo intento vendicatore.

Tacciato di razzismo, il film venne poco apprezzato dal pubblico degli anni ’50, trovando critiche anche da parte di altri registi storici quali Sam Peckinpah e Jean-Luc Godard.
Nulla di più lontano dalla realtà! La maestria e finezza registica di Ford fanno sì che il vero significato, vettore della trama, venga colto appieno dopo ripetute visioni del suo lavoro: brevissimi istanti romantici appena accennati nel rapporto tra Ethan e Martha (di fatto cognati, ma forse qualcosa di più profondo), fugaci inquadrature significative e ripetuti dettagli sugli sguardi ed espressioni del “Duca”, che ne dimostrano tutta la complessità nascosta in questo personaggio tormentato.

Ford non esita a mettere la faccia nel far recitare a Wayne battute cariche di una cattiveria impressionante (come il dialogo iniziale con Martin, in cui viene etichettato come “mezzosangue” perché di lontana discendenza nativa americana), nel fargli sfogare la sua immensa rabbia repressa infierendo su un cadavere indiano o sparando su mandrie di bisonti indifesi. In questo senso assistiamo alla genesi di un esempio di antieroe western che verrà richiamato dai grandi capolavori del cinema nostrano targati “Sergio Leone”.

Personaggi lontani dall’essere stereotipate figure salvifiche. Uomini che si discostavano dai precedenti dogmi del genere. I nuovi eroi raffigurati non si possono certo banalmente relegare nella categoria dei “buoni”: sono molto più complessi, motivati ad agire da ansie, dubbi, inquietudini, paure e rancori, in due parole “esseri umani”.

Wayne è sublime nel far trasparire tutta la granitica fragilità emotiva del suo personaggio. Primi piani rivelatori mostrano tutto l’astio che porta in corpo, lunghe pause su sguardi carichi di disprezzo e commiserazione ne mostrano il lato oscuro.

Osserviamo Ethan sprofondare quasi in uno stato di follia quando alla fine si scopre che l’amata nipote è divenuta moglie del suo odiato rivale. In questo momeno Ford ci lascia sul filo del rasoio, non accennando mai al vero intento che spinge Ethan a voler recuperare definitivamente la ragazza: vuole tentare di salvarla dalle grinfie dei Comanche oppure intende riversare anche su di lei la sua ira repressa?

Onore a Ford anche per aver saputo caratterizzare perfettamente tutti i personaggi di contorno, regalando quindi alla pellicola anche dei momenti in cui spezzare il pathos drammatico con inserti più vicini alla commedia.

Inutile poi tessere le lodi del comparto fotografico: l’ambientazione della Monument Valley parla da sé. Sin dalla prima inquadratura si respira maestosità, vastità sterminata e insondabile della sfera visiva e perfetto teatro dell’azione in cui inserire la fantastica interpretazione di un mostro sacro quale John Wayne. I due componenti sono quasi imprescindibili: Wayne può esistere solo nella Monument Valley e il paesaggio sembrerebbe vuoto senza il “Duca” a calpestarne il suolo.

Se proprio si vuole trovare una piccola e perdonabile pecca nel sontuoso lavoro di Ford e Nugent, si potrebbe obiettare che alcune scene si ambientano a cavallo di improvvisi e frettolosi sbalzi temporali, dettati forse dalla necessità di non dilungarsi eccessivamente in futili sequenze narrative. Si tratta comunque di piccolezze perfettamente passabili, inserite all’interno di una colossale opera cinematografica che ha determinato in maniera fondamentale il cambiamento radicale di un genere, oramai quasi sprofondato in un vortice di ripetitività di contenuti.

Voto: 9

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A cura di Christian Fregoni

1 commento

  1. altro che effetti speciali…il CINEMA che fu,fu opera come di grande letteratura,ricco di capolavori “umani”
    Tornerà?
    Lo paragono alla musica cosìdetta Classica
    ai capolavori di Pittura e Scultura
    Torneranno?
    mah……..

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