Psyco, recensione e analisi a cura di Christian Fregoni

psycho di Alfred hitchcock

È inutile girarci attorno, quando si parla di storia del cinema vengono obbligatoriamente in mente i soliti grandi e immortali nomi. Non è un caso se fra i più illustri maestri della settima arte compaia di buon grado anche Alfred Hitchcock. Prolifico artista e visionario anticipatore di uno stile registico che segnerà definitivamente un punto di svolta chiave nella messa in scena del thriller moderno, il “maestro del brivido” segna, nel 1960, la genesi del picco più alto della sua straordinaria carriera cinematografica.

Prendendo spunto dall’omonimo romanzo di Robert Block del 1959, ed ispirandosi iberamente alle macabre vicende reali del serial killer Ed Gein, Hitchcock regala ai posteri il punto apicale della sua intera e geniale opera creativa, quasi fosse una naturale e conseguente evoluzione della sua feconda estrosità. Poco da aggiungere: il thriller perfetto, quello con la T maiuscola.

La trama di Psyco

Phoenix, Arizona, 1959. La bella Marion Crane (Janet Leigh), segretaria di un’agenzia immobiliare, cerca di mitigare la propria insoddisfazione in una proibita relazione fedifraga con Sam Loomis (John Gavin). La concreta e pericolosa opportunità per uscire dalla logorante routine quotidiana le si presenta quando il suo capo le affida in custodia il denaro ricavato da un munifico contratto portato a termine: 40.000 dollari.

L’occasione fa l’uomo (in questo caso la donna) ladro e Marion non ci pensa due volte, scappando in fretta e furia con la grossa somma rubata. Presto la donna viene assalita da una forte inquietudine dovuta alla gravità del proprio gesto e così, prima di decidersi a fare ritorno per cercare di riparare al crimine commesso, si ferma per una notte in un isolato motel fuori città. La struttura è gestita da Norman Bates (Anthony Perkins), albergatore tanto gentile e affabile quanto timido e impacciato, che vive nei pressi del motel in una sinistra casa, alle dipendenze dell’invalida e dispotica madre.

Il susseguirsi degli eventi che porteranno dapprima alla scomparsa della povera Marion, e successivamente alla sparizione del detective privato Arbogast, sguinzagliato per tallonare la ladra fuggiasca, convinceranno Lila Crane (la sorella di Marion) e Sam a fare chiarezza una volta per tutte sui preoccupanti avvicendamenti, e la soluzione del mistero rivelerà quanto di più macabro e spaventoso si nasconda sotto la superficie della maschera umana.

Analisi e recensione di Psyco

Ho volontariamente omesso dalla redazione della trama alcuni dettagli fondamentali che rovinerebbero inevitabilmente l’esperienza di una prima visione di questo incredibile e fondamentale capolavoro del thriller. Sì, perché è impensabile (passatemi l’estremo rigore di giudizio) non conoscere a memoria un film epocale come “Psyco”. Dico epocale perché dal suo esordio in poi ogni thriller degno di tale appellativo si è dovuto necessariamente confrontare con i dettami del maestro Hitchcock, le cui influenze si riscontrano tuttora.

Estremo rigore stilistico, avveniristico utilizzo della regia per veicolare le sensazioni agli occhi dello spettatore, magistrale e sapiente connubio tra tecniche di ripresa e giochi di fotografia a sottolineare e rimarcare la costante atmosfera tensiva che scandisce lo svilupparsi dei 109 minuti di durata della pellicola, sanciscono la pietra miliare del genere e ne imprimono per sempre a fuoco i segni sulla pelle/pellicola.

Procediamo per gradi

La prima cosa che colpisce durante la visione è l’utilizzo di un monumentale quanto iconico bianco e nero. Scelta quanto più insolita all’epoca, visto lo straordinario successo del Technicolor, che aveva ormai colonizzato ampiamente la produzione cinematografica. La motivazione reale di questa presa di posizione è ancora in corso di dibattito, anche se alcune possibili interpretazioni sono da ricercarsi nell’esigenza di mitigare le tinte cromatiche, che per l’epoca sarebbero state decisamente troppo scioccanti (guardate il film e capirete perfettamente cosa intendo), oppure nella più pratica necessità di racchiudere la vicenda in un’ottica interpretativa ambivalente.

Sì, perché il tema del doppio aleggia minaccioso come un’insidiosa spada di Damocle. Bianco e nero, chiaroscuri alternati che mettono in luce i protagonisti o ne celano in modo sinistro i lineamenti, scenografie squarciate da fendenti luminosi che lacerano prepotentemente l’oscurità sia esteriore che interiore.

D’altronde il “doppio” è un punto chiave della filmografia del regista, motivo che incontriamo in altri capisaldi come “Intrigo Internazionale”, “La donna che visse due volte”, e qui lo ritroviamo preponderante grazie alla sapiente attenzione ai numerosi dettagli sugli specchi, vere e proprie metafore del mortale gioco di dualità presente nel film.

Altro titanico punto di forza per decretare l’originalità della trama è il celebre utilizzo del “MacGuffin”, espediente narrativo coniato proprio da Hitchcock che rappresenta un il meccanismo diegetico che dà il via all’azione e ne motiva lo svolgimento (in questo caso la busta contenente il denaro rubato), senza realmente risultare importante ai fini della trama stessa. Lo stratagemma sopraccitato ha validità reale solo per i personaggi del film, non per gli spettatori che vi assistono. I due aspetti menzionati in precedenza altro non fanno che infondere una forza straordinaria al vero punto focale della pellicola: la regia.

La regia di Psyco

Considerazione scontata e banale, penserete, ma imprescindibilmente doverosa. La regia sta a Hitchcock come la scultura sta a Michelangelo, ed è quindi logico parlare di arte. La macchina da presa è partecipe all’azione quanto gli attori che essa riprende, i suoi movimenti sono a tratti sincopati (scanditi da inquadrature serratissime, primissimi piani claustrofobici e dettagli quasi microscopici a mimare la frenesia motrice dell’occhio dello spettatore), alternandosi a momenti di voluttuoso virtuosismo stilistico (con la telecamera che fluttua magicamente sopra la scena donando impossibili punti di vista, oppure si incolla alle pareti, percorrendole strisciando, quasi a mimare l’incombenza della tensione). Ciò è il
condimento perfetto per la creazione di un sontuoso trattato sulla suspense, che
è la vera regina del film.

Le musiche di Psyco

A contribuire ulteriormente alla resa tensiva della pellicola occorre citare il fondamentale e riconoscibilissimo accompagnamento musicale del compositore Bernard Herrmann: musiche essenzialmente ridotte all’impiego di archi in un coro sinfonico di “grida strazianti” che colpiscono l’udito dello spettatore, in una perfetta simbiosi artistica con le immagini raffigurate.

Gli attori di Psyco

L’ultimo, vitale, tassello necessario alla composizione di questo strabiliante puzzle visivo è dato dalla compagine attoriale, forte delle magnifiche interpretazioni dei suoi due protagonisti: Janet Leigh (moglie di Tony Curtis, e madre di Jamie Lee Curtis) a portare sullo schermo una Marion Crane, bellissima e “biondissima” (altro stilema di Hitchcock), straziata dal senso di colpa, dall’inquietudine e dal malessere esistenziale; e ancor più Anthony Perkins, nel ruolo che lo segnerà per tutta la vita, a trasporre un Norman Bates sempre in bilico tra luce e oscurità, quasi costantemente ripreso col volto in penombra, conteso tra la propria infantile timidezza e le tremende vessazioni materne.

Curiosità

Due piccole curiosità sul film: “Psyco” detiene un insolito quanto simpatico primato: è infatti il primo film americano in cui viene ripreso uno sciacquone (!) in azione e lo stesso regista compare in un fugace cameo (come del resto Hitchcock era solito fare nei suoi film) all’inizio della pellicola, in quanto egli non voleva distogliere troppo l’attenzione degli spettatori dell’epoca, sempre più abituati a cercare di scovarlo durante la proiezione delle sue opere.

Voto: 10

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