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L’altra via – La recensione del film di Saverio Cappiello

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L’Italia degli anni Novanta, quella in fermento per i mondiali carichi di rimpianti poi vinti dalla Germania Ovest, rivive in questo racconto di periferia, ambientato per la precisione nel quartiere popolare dell’Aranceto a Catanzaro. Protagonista è il piccolo Marcello, un bambino di origini albanesi che vive lì con la madre Tereza, costretta a lavori degradanti e doppi turni pur di mantenere lei e il bambino. Nella comunità abita Andrea Viscomi, capitano della squadra di calcio locale, l’U.S. Collidoro, ormai a fine carriera ma ancora desideroso di guadagnare un’agognata promozione.

Tra lo sportivo e il ragazzino, vittima del bullismo dei coetanei dai quali viene isolato, nasce un inaspettato legame, che assume contorni quasi paterni nel modo in cui l’uomo si affeziona al suo giovanissimo amico. Ma Andrea è anche coinvolto in alcuni giri di corruzione e partite truccate e le sue conoscenze negli ambiti criminali cittadini rischiano inevitabilmente di complicare la situazione.

L’altra Vita: il campione e il bambino

Un esordio promettente quello firmato da Saverio Cappiello con L’altra via, un atipico racconto di formazione ambientato in un quartiere popolare e con personaggi potenzialmente alla deriva, con un moderno sguardo neorealista che cerca di ritrarre vizi e virtù di una comunità periferica, piagata come spesso accade da contorni criminali.
L’amicizia che si crea tra Marcello e Andrea, pur potendo dare adito a sospetti e malelingue, è una sorta di appiglio per entrambi, ognuno di loro alle prese con una quotidianità difficile, chi per colpe proprie o chi vessato da un mondo ingiusto. Il bambino che non ha amici – e che viene escluso anche dai suoi connazionali, in una sorta di razzismo a tutto campo e senza nazionalità – e l’atleta sul viale del tramonto: una coppia che possiede le giuste caratteristiche per creare un substrato drammatico degno di nota, con quell’epilogo melanconico che si tinge di note ulteriormente amare nella sua efficacia.

La macchina da presa segue spesso il piccolo protagonista da dietro, alle spalle, come a pedinarlo nella scoperta di queste dinamiche narrative che sveliamo insieme a lui, anche nelle soluzioni apparentemente più improbabili e forzate; che nessuno si accorga di un bambino che entra in un night club e non intervenga in tempo sembra un escamotage studiato a tavolino. Frivolezze ad ogni modo in una sceneggiatura calibrata e dosata, che ha il merito di non scadere in una retorica eccessiva ma di mostrare il dramma senza edulcorazioni di sorta e con una certa sincerità di intenti.

Giuseppe Gallo produce con la sua Verso Features ed è anche autore dello script, che ci trasporta di peso in un’epoca passata, lontana e vicina al contempo, con le sue canzoni e i suoi sogni, all’insegna di quell’altra via che può anche essere il solo percorso verso salvezza e redenzione.

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