La casa di carta, recensione no spoiler di una serie che forse ha tirato un po’ troppo la corda

La casa di carta

Perché rapinare una banca quando si possono stampare infinite banconote senza che queste siano false? Ecco l’idea di fondo de “La casa di carta”, la serie spagnola che tra il 2017 e il 2021 ha tenuto gli occhi di milioni di persone incollati su Netflix. Eppure l’impressione è che la serie sia durata molto più del dovuto e se non è da buttare non è nemmeno tutta da salvare.

La casa di carta, trama

“La casa di carta”, nota anche col titolo originale “La casa de papel” è una serie tv spagnola diffusa in Europa e nel mondo da Netflix, che ne ha fatto una delle serie più rappresentative della piattaforma. Il motivo del successo di questo show è abbastanza ovvio e risiede nell’idea su cui la serie si fonda. 8 rapinatori vengono guidati da un deus ex machina che architetta il piano del secolo: entrare nella zecca di Stato spagnola e rapinarla dall’interno. Qual è il luogo in cui si possono ottenere più soldi se non quello deputato a produrli? Ecco dunque che l’ideatore del piano, noto come “Il Professore” (Alvaro Morte), raduna gli 8 ladri più abili del mondo, offrendo loro il modo per cambiare per sempre le loro vite salvandoli dalle grinfie delle forze dell’ordine che danno loro la caccia. C’è una regola fondamentale: le persone coinvolte non devono conoscersi fino all’ultimazione del furto e non devono sapere neppure i loro veri nomi; ecco perché a ognuno viene affidato un nome di fantasia, un nome di città. Abbiamo dunque Rio (Miguel Herran), Mosca (Paco Tous), Berlino (Pedro Alonso), Nairobi (Alba Flores), Denver (Jaime Lorente), Helsinki (Darko Peric), Oslo (Roberto Garcia) e infine la vera protagonista, nonché voce narrante della serie, Tokyo (Ursula Corberó).

Ogni componente della banda ha una particolare abilità da mettere al servizio del Professore e della loro ambizione di diventare talmente ricchi da non dover più avere a che fare né col crimine né con la necessità di rubare ancora. Il piano è studiato nei minimi dettagli e i protagonisti vengono reclutati e portati in una casa in campagna in cui avviene un lungo addestramento che impartisca loro le lezioni necessarie per saper gestire ogni singola decisione e ogni più particolare scenario una volta entrati nella zecca di Stato. Il Professore ha calcolato tutto, è un portentoso genio del crimine che monitora tutto attraverso le telecamere come un Grande Fratello con spettatore unico: lui. Dalla sua postazione segreta osserva, studia, comunica con la sua banda e dà direttive prendendo scelte delicate ma determinanti. Il suo ruolo è doppiamente fondamentale sia all’interno della zecca che fuori, poiché – nel suo anonimato – riesce a tessere trame che lo faranno essere sempre un passo avanti rispetto alla polizia.

Nonostante il suo genio criminale, la sua intenzione è quella di arricchirsi senza fare danni diretti a nessuno e prevede di far ricorso alle armi solo se i poliziotti li costringeranno a farlo. I visitatori della zecca tenuti in ostaggio faranno da scudo e saranno l’assicurazione dei rapinatori per evitare che le forze dell’ordine entrino e facciano una carneficina; per questo e per lo stile da gentiluomo del Professore che lo rende una sorta di Lupin, gli ostaggi vengono trattati bene e con umanità, non devono essere torturati perché loro non c’entrano nulla: è tutta una faida tra ladri e Stato spagnolo. Ad ogni modo durante il furto si intrecceranno le trame dei singoli personaggi, ostaggi e rapitori, che instaureranno dei rapporti, proveranno dei sentimenti e non tutto andrà liscio come i piani prevedevano, ed è questa presenza dell’imprevisto e dell’imprevedibile che suscita l’interesse del pubblico e lo porta a fare il tifo per quelli che, nel mondo reale, sarebbero i cattivi.

La casa di carta, perché guardarla

Nelle prime 2 stagioni si compie e conclude il disegno tracciato in queste poche righe di trama che abbiamo riassunto e il tutto avviene in modo incredibilmente affascinante. La storia sovverte i ruoli della vita reale e ci pone di fronte un punto di vista non convenzionale, certamente non originale ma sicuramente non tradizionale, per il quale i criminali diventano dei protagonisti sì, ma dei protagonisti buoni contro un sistema economico, politico, sociale e bancario che privilegia pochi eletti e non fa il bene del popolo. Ed è il popolo al centro della vicenda, un popolo che ha perso i mezzi e le speranze per fare la rivoluzione e che improvvisamente vede in una banda di ladri, di persone che stanno rubando soldi dalle casse del loro stesso Stato, un bagliore, una luce che scoperchia il vaso di Pandora e ne mostra il contenuto al mondo. Nella cultura spagnola non mancano i precursori di questa figura di antieroe che diventa vero eroe, pensate ad esempio a Zorro o al più classico dei romanzi picareschi, ma ne “La casa di carta” viene tutto amplificato e reso contemporaneo, parlando di dinamiche che ci riguardano direttamente, come l’inflazione o le speculazioni bancarie.

Al di là della trama generale che è un incontro tra il thriller e l’azione, il fascino della struttura viene retto dalle numerose incursioni sentimentali. Non ci riferiamo solo ai rapporti instauratisi tra i personaggi (alcuni dei quali avremmo volentieri evitato), ma delle loro storie, dell’analisi del loro animo, del racconto del loro vissuto attraverso i flashback, le lacrime, le emozioni, le azioni, le reazioni e le motivazioni. Ogni personaggio è stato convinto dal Professore perché su di sé portava un peso, una realtà dura con cui dover fare i conti, una condizione di sofferenza e un’enorme voglia di riscatto senza ormai aver più nulla da perdere. Ed è dagli occhi dei personaggi più amati che passa l’enorme successo della serie, che grazie alla loro personalità hanno conquistato il pubblico.

Sono l’aspetto e l’intelligenza del Professore che nascondono un animo fragile che è stato costretto a fortificarsi, sono l’impulsività e la sfrontatezza di Tokyo che la rendono imperfetta avvicinandola allo spettatore, sono le nobili ragioni di Nairobi che fanno della sua forza e al contempo della sua leggerezza il filo conduttore dell’intera serie. E poi c’è Berlino, un personaggio istrionico, passionale, dai gusti ricercati, dai modi di fare eleganti, dallo stile inimitabile interpretati da quella che forse è la miglior prova attoriale dell’intero show: quella di Pedro Alonso. Non a caso è, di fatto, il personaggio più amato ed emblematico, tanto da valergli il ruolo da protagonista in una serie spin-off omonima del suo personaggio: “Berlino”. Insomma, se niente avviene per caso, ecco spiegato il gigantesco successo de “La casa di carta”, ma queste righe che abbiamo appena scritto sono tutte relative alle prime 2 stagioni. Le prossime non conterranno così tante parole al miele.

La casa di carta, perché non guardarla

Purtroppo come spesso accade per le serie tv che esordiscono riscuotendo grande successo, la voglia di proseguire il progetto si fa strada insieme alla certezza del risultato anche senza avere un’idea vincente come compagna di viaggio. “La casa di carta” si accartoccia (scusate il gioco di parole) su sé stessa e sulla fan base che ha costruito con le prime 2 stagioni, quelle davvero vincenti, quelle nate secondo lo stesso filo conduttore della rapina nella zecca di Stato spagnola. Ecco, l’idea nuova e rivoluzionaria era quella, tutto ciò che viene dopo è solo il costrutto artefatto basato sul campare di rendita, un modo per dare al pubblico ancora Tokyo, ancora Rio, ancora Nairobi, ancora Professore e qualche altro personaggio il cui ruolo viene reinventato in modo surreale e improvvisato.

“La casa di carta” dalla terza stagione è pretestuosa, è forzata, è la continuazione di qualcosa che si era chiusa e che avrebbe dovuto restare chiusa, è mero fan service allo stato puro. Perché se è vero che chi va con lo zoppo impara a zoppicare, nel caso degli autori potremmo dire che avendo a che fare con dei rapinatori hanno trovato anche loro un modo per fare soldi facili. La terza, la quarta e la quinta stagione sono quanto di più lontano da quello che la serie proponeva in principio: sono una scusa continua per far succedere qualcosa che deve necessariamente succedere, sono la ricerca del sensazionale e dei fuochi d’artificio a tutti i costi. Per carità, non vogliamo incensare i primi 2 capitoli facendoli passare come il vademecum del creatore di serie tv, perché alcuni difetti c’erano anche prima. Solo che questi subiscono il processo che spetta a tutti gli elementi della narrazione: tutto viene esagerato, gonfiato, ingigantito, spettacolarizzato. Dunque quelle che erano sporadiche imperfezioni diventano grosse pecche, buchi di trama e grottesche scene che sfidano le leggi della fisica e l’intelligenza dello spettatore.

Così tra moto volanti in mezzo a raffiche di proiettili stranamente imprecisi, gente che corre con una pallottola in un piede come se niente fosse, software su computer portatili che in pochi secondi hackerano i sistemi di sicurezza più evoluti e sofisticati del pianeta, ci ritroviamo di fronte a tutti i cliché dei film d’azione degli anni ’90 e 2000. Il problema è che qui si tratta di una mega produzione del 2021 che, in linea teorica, certi stereotipi avrebbe dovuto superarli da un pezzo. Poi un altro problema, ma questo è probabilmente un gusto personale, la serie ce l’ha con la sua protagonista: Tokyo. Semplicemente non funziona, a meno che tu non sia una ragazzina che si atteggia a donna forte sognando di diventare come il personaggio interpretato dalla (seppur brava) sua attrice Ursula Corberó. Si tratta di una protagonista per la quale non si riesce a provare una benché minima empatia, non si fa il tifo per lei perché è un personaggio che crea più problemi di quanti ne risolva e la sua impulsività e poca lucidità la rendono nociva per i suoi compagni e per l’intera trama. Nulla da dire sulla sua caratterizzazione: gli elementi che la compongono sono ben definiti, che piacciano o meno, ma sono semplicemente un mix di isterismi e capricci che rendono Tokyo una protagonista nauseante e a tratti odiosa. Anzi, per larghi tratti.

Lo sappiamo, forse siamo un po’ severi con questa recensione, ma dobbiamo essere onesti: guardando le ultime stagioni non vedevamo l’ora che la serie finisse, ma poi puntualmente arrivava l’annuncio di un nuovo capitolo. Quando l’ultimo episodio si è concluso abbiamo tirato un sospiro di sollievo, perché gli autori avevano finalmente deciso di staccare la spina a un progetto che si stava uccidendo da solo, così hanno creato un finale che non desse spunti per un sequel. Eppure eravamo convinti di questo anche dopo l’ultimo episodio della seconda stagione, e invece… Le vie del fan service sono infinite, ma a volte anche basta.

Il trailer de’ “la casa di carta”

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