Kingdom, la recensione senza spoiler del dramma storico coreano… con gli zombie!

Kingdom

Prima dell’esplosione popolare garantita dall’Oscar al Miglior Film per Parasite, e ancora prima del caso mediatico montato grazie al successo di Squid Game, la Corea sfornava continuamente prodotti di qualità anche senza l’approvazione del grande pubblico. La divisione asiatica di Netflix è ad oggi una delle più produttive dell’intera piattaforma, ma fino a pochi anni fa pubblicava a cadenza regolare piccoli progetti dal potenziale esplosivo e dalla riuscita altalenante: tra questi spicca lo zombie drama Kingdom, un peculiare mix tra The Walking Dead e la storia geopolitica di un paese semi-sconosciuto, capace di distinguersi dalla massa di congeneri grazie alla messinscena sensazionale e alle coreografie esaltanti.

Kingdom, la trama

Durante il regno dinastico di Joseon, che comprende cinque secoli a cavallo tra il medioevo asiatico e l’età moderna, la Corea è un Paese frammentato ed in subbuglio, messo a ferro e fuoco dalle armate giapponesi che sbarcano senza sosta sulle sue coste e si appropriano delle materie prime di lusso prodotte sulla penisola. Ad inasprire la lotta contro gli invasori ci pensano le immancabili ingiustizie sociali tra un’aristocrazia morente, che vive nel lusso più sfrenato e fa cerchio intorno al proprio nepotismo, e le persone comuni, costrette a vivere di stenti nonostante l’agiatezza di chi li governa.

La Corea è dunque una polveriera pronta ad esplodere, ma una decisa sterzata nella giusta direzione potrebbe avvenire con l’incoronazione di un nuovo Re: l’attuale monarca è infatti gravemente malato, al trono dovrebbe succedergli il Principe Ereditario Lee Chang (Ju Ji-hoon), un giovane onesto e di buon cuore al netto della sua nascita nobiliare. Il passaggio di testimone non è però immediato, perché Cho (Kim Hye-jun) – la giovanissima moglie del re morente – aspetta un figlio, ed essendo Lee soltanto il figlio di una concubina, il nascituro sarebbe il legittimo successore al trono qualora vedesse la luce prima di una nuova incoronazione.

A spingere verso questa eventualità ci pensa ovviamente il padre della regina, che appartiene ad una casata storica del Regno, ma la lotta al potere non è l’unico problema che la Corea deve affrontare mentre l’inverno si affaccia alle porte. Una strana malattia sta infatti falcidiando centinaia di persone nelle zone limitrofe alla capitale, mentre i cadaveri sembrano tornare in vita privi di raziocinio e bramosi di carne umana.

Perché guardare Kingdom

Il lavoro dello showrunner Kim Eun-hee – che ha trasposto per la piattaforma streaming il suo fumetto digitale The Kingdom of Gods – ha fatto da apripista al numero incalcolabile di serie tv coreane che ad oggi infoltiscono il catalogo di Netflix, permettendo al mondo occidentale di conoscere una tipologia di scrittura a dir poco peculiare, che mescola tra loro diversi macro-generi per creare qualcosa di totalmente unico e difficilmente ascrivibile ad uno schema.

Il cinema del continente asiatico è da sempre restio ad ingabbiare le proprie opere, e amalgama continuamente varietà di spettacolo lontane da loro per dare forma ad opere impossibili da paragonare alle controparti occidentali: nel leggere la sinossi di Kingdom, infatti, potremmo trovare qualche parallelo nelle sensazioni restituite dalla corsa al trono di Game of Thrones, ma anche nella lotta ai non morti di The Walking Dead. Sebbene il confronto possa aiutare a schematizzare i punti focali della sceneggiatura, entrambi i successi a stelle e strisce appaiono profondamente diversi dalla strana creatura distribuita da Netflix, che mescola come uno scienziato pazzo il dramma storico all’apocalisse zombie, condendo il tutto con un’anima action pesantemente coreografata e spettacolare che non ha nulla da invidiare alle grandi produzioni d’oltreoceano.

La questione della successione dinastica è il collante che tiene unite due stagioni dall’elevatissimo numero di colpi di scena, inscenando tradimenti, bugie e tentativi di rovesciamento che colpiscono per la serietà della loro pianificazione. Nello srotolarsi delle problematiche geo-politiche, tra le quali rientrano anche le continue invasioni giapponesi, Kingdom non nasconde il proprio risentimento sociale verso un’aristocrazia agiata che non ha idea (o non è interessata) dei problemi delle persone comuni, e l’atteso capovolgimento dei ruoli viene trasportato dal personaggio del Principe Ereditario, costretto a vagare per un Paese sconvolto dall’apocalisse zombie e quindi obbligato ad immergersi nella dura realtà della vita.

Il suo cambiamento, portato in scena con maestria da un attore sempre convincente, è veicolato da un ampio cast di comprimari che sorprendono per caratterizzazione e realismo, come nel caso della “dottoressa” Seo-bi (Bae Doo-na) e della guardia reale Kim Sang-ho (Moo-young), i quali accompagnano il principe nella sua crociata in nome del popolo. All’anima seriosa ed approfondita di questo dramma medioevale, Kingdom unisce i tratti adrenalinici di una guerra agli zombie che aggiunge un tocco horror mai banale né esagerato: i non morti della serie coreana sono velocissimi e – come da tradizione – possono essere abbattuti soltanto colpendoli alla testa, ma si muovono in orde e si animano di notte, mentre di giorno si nascondono dalla luce del Sole cercando riparo in ogni anfratto possibile, simulando un letargo che rende ansiogeno ogni tramonto.

Le battaglie contro i redivivi sono sempre esaltanti, perché portate sullo schermo da una felice vocazione alla coreografia che crea danze di morte capaci di ammaliare, aiutate da un tocco estetico splatter e dalla messinscena sfarzosa delle ambientazioni. Il comparto tecnico contribuisce a rendere Kingdom una delle migliori serie zombie mai prodotte (se non la migliore in assoluto), con la sua fotografia evocativa ed una regia tanto concreta nei dialoghi quanto esaltante nei combattimenti, mentre la profondità della scrittura riprende le modalità tanto care alle sceneggiature coreane – che aggiungono spesso un sottile umorismo anche alle opere più oscure – per tratteggiare un dramma storico semplicemente imperdibile.

Kingdom, perché non guardarlo

La peculiarità della scrittura potrebbe allontanare chi non è avvezzo a dialoghi che veleggiano tra il serio ed il faceto: dimenticate il patetismo di tante opere in costume, Kingdom in alcune occasioni sembra prendersi poco sul serio, e cerca di alleggerire il suo carico drammatico con un’inclinazione all’umorismo che potrebbe infastidire un pubblico diretto e concreto. Chi è alla ricerca di una serie action fatta soltanto di battaglie e massacri, da guardare a cervello spento dopo una lunga giornata di lavoro, verrà scontentato dalla serietà di questioni politiche pianificate ed attuate con estrema cura, da seguire con attenzione in attesa del prossimo inaspettato colpo di scena.

Al contrario, se siete alla ricerca delle sensazioni regalate da Game of Thrones, non verrete completamente soddisfatti da questa serie Netflix, perché gli intrighi di corte – sebbene siano fondamentali allo svolgersi della sceneggiatura – diventano spesso soltanto lo sfondo per giustificare un viaggio tra sangue e zombie, il quale potrebbe inoltre risultare indigesto a chi non tollera la violenza evidente di non morti che divorano ogni essere umano.

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