Vite vendute, recensione film (no spoiler) del remake su Netflix a tutta azione

vite vendute

In Guatemala la sopravvivenza dei residenti di un campo profughi è messa a serio rischio per la potenziale esplosione di un pozzo di petrolio che ha cominciato a infiammarsi; dall’evolversi della situazione dipendono anche le sorti di una compagnia che gestisce il relativo bacino petrolifero. Il solo modo per evitare un’imminente catastrofe umanitaria e salvaguardare gli interessi della società è quella di farlo esplodere totalmente, ma per farlo serve un enorme carico di nitroglicerina, che dovrà essere trasportata per oltre ottocento chilometri in pieno deserto a bordo di due camion. Tra gli uomini che faranno parte del team incaricato della pericolosa missione vi sono i fratelli Fred e Alex, reduci da un evento burrascoso che ha inevitabilmente compromesso il loro rapporto; i due si ritrovano gioco-forza a collaborare per reciproci interessi, ma scopriranno ben presto di non potersi fidare di nessuno e dovranno fare affidamento l’uno sull’altro per uscire incolumi e fare la cosa giusta.

Vite vendute: fino all’ultimo secondo

A oltre settant’anni dal film originale, ovvero il Vite vendute (1953) di Henri-Georges Clouzot, arriva una nuova versione pensata per il mercato streaming e sbarcata direttamente nel catalogo di Netflix. Siamo di fronte al terzo remake, dopo il misconosciuto Il grande rischio (1958) e, soprattutto, il memorabile Il salario della paura (1977) di William Friedkin, che riusciva ad aggiornare e restituire le atmosfere dell’immortale prototipo.

Entrambi i rifacimenti battevano bandiera americana, mentre il Vite vendute appena uscito è di produzione francese come l’originale; peccato che provenienza a parte, i due titoli non abbiano niente in comune. Nel film qui oggetto di recensione infatti si è preferito concentrarsi sull’anima action tipica di molte produzioni moderne, sacrificando la tensione e l’introspezione psicologica che caratterizzavano l’opera alla base. Eccoci così davanti a un’operazione uguale a tante altre, senza arte né parte, che cerca di garantire emozioni a tema con un discutibile contesto geo-politico e un manipolo di protagonisti scarsamente caratterizzati: uomini duri e puri, sempre pronti a lottare per i più deboli senza reali motivazioni a carico, con un background ridotto al minimo sindacale nel dipanarsi di questa storia priva di effettive sorprese.

Un film poco esplosivo

Tradimenti, morti inaspettate e gesta di sacrificio si alternano nell’improbabile, disperata, missione dei protagonisti, con il contesto mediorientale e briganti ricalcati su varie etnie ad impensierire ulteriormente il già arduo percorso della squadra, fino a quell’epilogo forzatamente melodrammatico che si rivela involontariamente ridicolo.

E così tra flashback poco omogenei, inverosimiglianze assortite ed effetti speciali non certamente indimenticabili, Vite vendute si trascina per cento minuti avari di effettivi meriti, con la regia di Julien Leclercq – che pur aveva diretto in passato pellicole riuscite come L’assalto (2010) – qui totalmente anonima per poter reggere il paragone con cotanti predecessori.

Conclusioni finali

Franck Gambastide e Albain Lenoir, due volti simbolo del cinema di genere transalpino contemporaneo, sono al centro di uno scialbo, superfluo, remake del grande e omonimo classico degli anni Cinquanta, già degnamente rivisitato da Hollywood con Il salario della paura (1977). In questa nuova versione made in Netflix tutto è volutamente esagerato ma inesorabilmente vuoto, con l’anima action che prende il sopravvento e sacrifica la tensione psicologica all’altare di un puro, mero, intrattenimento fine a se stesso.

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