Non è mai facile adattarsi al presente, soprattutto quando bisogna lasciarsi alle spalle un passato fatto di bellezza e successi travolgenti. Vinyl lo racconta bene, soprattutto perché a idearla è una coppia di artisti che la storia degli anni settanta l’ha fatta per davvero: sir Mick Jagger si unisce a Martin Scorsese per raccontare gli anni settanta visti dalla prospettiva di un produttore discografico in crisi.
Vinyl, la trama
New York, 1973. C’era un tempo in cui Richie Finestra (Bobby Cannavale) era un regista. Una carriera abbandonata presto, quando la conoscenza del cantante afroamericano Lester Grimes, che si esibiva nei locali con la sua musica blues, cambia le carte in tavola. Tuttavia, quando Richie propone a Grimes di lavorare per l’etichetta Rondelay Records, che gli avrebbe garantito un manager ma non la possibilità di fare musica sua in libertà, Richie comincia a maturare l’intenzione di fondare un’etichetta tutta sua. Anni dopo nasce l’American Century Records, gloriosa etichetta discografica con un passato costellato di grandi successi e grandi nomi.
Ci ha messo vent’anni Richie per costruire un impero sulle fondamenta della sua più grande passione, la musica (che sia rock, jazz o blues): però oggi, per qualche ragione, è sull’orlo del fallimento. La vita privata di Richie non è ugualmente tragica: è sposato con l’ex attrice Devon (Olivia Wilde), che faceva parte della factory di Andy Warhol, e insieme a lei ha due figli, ma questo non basta a salvarlo dall’abuso di alcol e droghe che sembrano offrirgli una via di fuga, seppur momentanea, dai suoi tormenti emotivi. I Led Zeppelin potrebbero salvare il futuro della American Century: stanno per chiudere un contratto che potrebbe rivelarsi un punto di svolta per tutti, ma quando il loro manager scopre che la tedesca Polygram ha intenzione di acquistarla fa improvvisamente marcia indietro.
Richie ha perso due cose insieme: la più importante band del momento e, come conseguenza, la possibilità di salvarsi economicamente grazie all’arrivo di Polygram, che si ritira quando scopre che non ci sarà più nessun Robert Plant a firmare con loro. Vinyl esplora dunque la serie di tensioni e disaccordi sulla co-conduzione (insieme al suo dirigente, Zak Yankovich) di un’etichetta in un momento di epocale cambiamento culturale, mentre Devon, nel frattempo, matura il desiderio di tornare alle origini anticonformiste riabbracciando uno stile di vita che sembrava aver dimenticato. Sullo sfondo, “solo” la ricchissima scena musicale degli anni settanta.
Vinyl, perché guardarla
Non poteva che nascere da un’idea di un musicista e di un grande regista una serie come Vinyl, che amalgama così bene un immaginario cinematografico e il gusto per la musica di un’epoca passata: e sono nientemeno che i nomi di Mick Jagger e di Martin Scorsese, non esattamente i primi arrivati, a costituire una sorta di garanzia per la serie. In origine avrebbe dovuto essere, in realtà, un film (e proprio i Rolling Stones ne fanno menzione nell’ormai distante 1996), ma già allora si parlava di un prodotto che non doveva risparmiarsi in lunghezza. Anziché le tre ore inizialmente previste per un unico lungometraggio, oggi abbiamo una serie interamente focalizzata sugli anni settanta visti e rivissuti attraverso la lente della musica.
Vinyl è una serie speciale innanzitutto perché vanta la mano di Scorsese anche nelle vesti che più gli si addicono: è il regista stesso a girare, in prima persona, il lungo episodio pilota (due generose ore) che sintetizza gli stilemi dell’autore e ne riassume perfettamente lo stile visivo, in un caleidoscopio di colori e suoni che fa da struttura disordinata alla caotica ma bellissima dimensione del mondo musicale di quella decade ricca di libertà e sperimentazione artistica.
Bobby Cannavale è grandioso nel mettersi a totale servizio del suo personaggio, Richie Finestra. Antieroe nel contesto dell’industria musicale, Finestra s’inserisce nel solco degli antieroi televisivi – dall’estremamente somigliante Don Draper di Mad Men all’altrettanto ambizioso e vizioso Walter White di Breaking Bad, forse entrambi figli di un cinema che ha in Martin Scorsese il suo antenato originario – che rimangono soli dinanzi al nemico più temuto di tutti: la caduta del proprio potere (e anche se stavolta il potere è “solo” quello del rock, il concetto non cambia).
Ciò che più di ogni altro elemento rende Vinyl una serie ipnotizzante è l’ambientazione: oggi, grazie a prodotti come Daisy Jones and The Six o Pistol, non è una novità vedere anche nell’ambito televisivo opere che siano fondate sull’intenzione di ricreare un mondo anche nelle dimensioni “ridotte” del piccolo schermo, ma quando Vinyl fu realizzata sembrava qualcosa di trasgressivo almeno quanto ciò che raccontava. La linea cronologica è frammentata ma chiarissima, perché il contenuto della serie non è una sola vita quanto, piuttosto, una serie di esistenze filtrate attraverso la palla di cristallo della nostalgia.
Scorsese comprende in profondità qual è il linguaggio (portentoso, frenetico) che si presta a comunicare il sentimento quando si parla di anni settanta, periodo di fermenti resi ancora più inarrestabili dalla sensazione apocalittica che annunciava la fine di tutto. Una fine che si concretizza sul piano collettivo e sul piano personale in un racconto che coniuga il privato e il pubblico, dove le febbrili rivendicazioni sulla propria identità (soprattutto artistica) sono un modo per ritornare nel passato e per non cadere nel baratro del futuro.
Vinyl, perché non guardarla
Vinyl vede la luce in un periodo di mezzo per la serialità televisiva, e questo è reso ancor più evidente dalla gestione delle sue prime due ore di racconto. L’epoca in cui va contestualizzata è quella in cui la televisione sta ancora cercando una legittimazione di prestigio che non arriverà, in maniera completa e non più revocabile, prima che un’altra decina di anni sarebbe passata. Questo significa che se, da una parte, non era più raro concepire che un autore del calibro di Martin Scorsese si prestasse (seppur occasionalmente) alla TV, d’altro canto il frutto di questa collaborazione fra artigiani del cinema e delle opere televisive aveva ancora la forma incerta di un prodotto ibrido, dalla direzione imprecisa.
Vinyl è, infatti, una serie che vorrebbe trasporre il linguaggio del cinema nel formato della televisione, perché era difficile credere che il linguaggio di quest’ultima potesse essere affinato, ma potesse dunque bastare: questa è la ragione per cui si ha l’impressione che a sostenere la narrazione della serie sia un ritmo narrativo che non si accorda perfettamente ai tempi e al minutaggio di una serie TV. Quello di Scorsese è un modo di fare cinema all’interno di una scatola che cinema non è, e per questo motivo Vinyl somiglia a un film in nuce, o una serie che poteva dare di più.
Inoltre, forse per via di un team che su carta aveva annunciato questo tipo di direzione (da una collaborazione fra Jagger e Scorsese non ci si poteva aspettare qualcos’altro), Vinyl è costantemente sopra le righe: ogni dialogo, ogni azione, ogni gesto (e la stessa gestualità, in generale) di ogni personaggio è urlato, è convulso, febbricitante. Non c’è spazio per le sottigliezze di racconto, per il suggerito. Pur contando su uno stile brillante, una regia sapiente e una gestione del commento musicale che potrebbe far da manuale per quelli a venire, Vinyl ha le sembianze di una gemma grezza in mezzo a una serie di diamanti: vale a dire che è materia pura, senza dubbio, ma che forse avrebbe dovuto e potuto essere lavorata meglio.
Vinyl, il trailer italiano