Piccole cose come queste: un dramma intimista nell’Irlanda degli anni ’80 – Recensione

Piccole cose come queste

Irlanda, inverno del 1985. Bill Furlong è un commerciante di carbone nella piccola cittadina di New Ross. Padre devoto di cinque figlie, marito fedele alla moglie Eileen, è un membro rispettato della comunità. Il protagonista di Piccole cose come queste conduce un’esistenza apparentemente tranquilla, costruita per distanziarsi dalla vergogna delle proprie origini: figlio illegittimo di una madre nubile, cresciuto solo grazie alla generosità di Mrs. Wilson, ricca proprietaria terriera che aveva offerto lavoro e dignità a sua madre quando tutti gli altri le avevano voltato le spalle.

Quei ricordi d’infanzia, mostrati attraverso diversi flashback frammentari, riaffiorano costantemente nella coscienza di Bill. La routine viene sconvolta quando, durante una consegna al convento locale, Bill scopre una ragazza rinchiusa nel deposito del carbone, sporca e terrorizzata. È una delle cosiddette “ragazze cadute” confinata nella Casa Magdalene gestita dalle suore, istituzione che dietro la facciata religiosa nascondeva un sistema di sfruttamento del lavoro e di punizione per le donne considerate “moralmente compromesse”, rimaste incinte o cacciate dai propri genitori. Bill si troverà di fronte a una scelta difficile: denunciare il tutto oppure continuare a vivere come se niente fosse.

Piccole cose come queste: in cerca del perdono – recensione

Chi avesse già visto lo struggente Magdalene (2002) di Peter Mullan ha un’idea di cosa fossero realmente questi conventi degli orrori, spacciati come istituti “riabilitativi” per giovani donne, povere e/o sole al mondo o mandate lì non per scelta propria, ma dalle famiglie o dalle autorità, e poi trattenute e sfruttate contro la loro volontà. Uno scandalo durato quasi sessant’anni nel silenzio assordante della Chiesa, che qui fa da sfondo a questo dramma che vede protagonista il premio Oscar Cillian Murphy, irlandese come il suo personaggio.

Un dramma sottotono scelto come film d’apertura per l’edizione 2024 del Festival di Berlino, ambientato negli anni Ottanta e adattamento del racconto di Claire Keegan, con lo stesso team che aveva già portato sullo schermo un’altra storia breve della stessa autrice, ovvero il tenero e struggente The Quiet Girl (2022), candidato all’Oscar come Miglior Film Internazionale nel 2023.

Un film non per tutti

Ci troviamo davanti ad un racconto sussurrato che riflette sulla complicità collettiva e sulla profonda ipocrisia che si nasconde tra le comunità più bigotte, con il timore di andare contro il potere, spirituale ed economico, della Chiesa che fa chiudere gli occhi anche di fronte a quelle ingiustizie che tutti sapevano ma preferivano dimenticare.

Ma anche una storia di resilienza e di riscatto, dove le piccole azioni individuali possono sfidare sistemi oppressivi, e il risveglio delle coscienze passa attraverso la nuova consapevolezza di un unico individuo, il tormentato padre di famiglia al centro della vicenda. Il regista Tim Mielants aveva già collaborato con Murphy nella serie cult Peaky Blinders e rinsalderà ulteriormente il legame col successivo Steve (2025), del quale vi abbiamo parlato su queste stesse pagine.

In Piccole cose come queste calibra retorica e dramma con un certo equilibrio, anche se il ritmo estremamente compassato e la storia alla base impegnativa potrebbero irretire uno spettatore stanco e in cerca di emozioni più classiche. D’altronde l’ora e mezzo di visione non è semplice, ma necessaria per non abbassare la guardia affinché certe cose rimangano solamente drammatiche pagine di un pur vicino passato.

Conclusioni finali

Un’opera che può dividere, tra chi apprezza il suo coraggio formale e chi trova la sua reticenza frustrante, giacché la catarsi resta appena in superficie e l’epilogo non offre facili (as)soluzioni su vittime e colpevoli delle cosiddette Case Magdalene, istituti inglesi gestiti da suore che erano in realtà luoghi di sfruttamento e violenza nei confronti delle giovani donne lì recluse.

Piccole cose come queste non fa concessioni alle aspettative classiche, con una retorica limitata e un ritmo lento, deliberatamente sottotono e anti-climatico nelle sue risoluzioni narrative. Incluso quell’epilogo che lascia sì un pizzico di speranza ma non mostra cosa accadrà effettivamente dopo ai personaggi. Cillian Murphy domina la scena con un’interpretazione dolente e struggente, che nasconde inquietudini dietro quel volto segnato, in un cast dove spicca anche l’algida madre superiora di Emily Watson.

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