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Panama: un action-thriller al quale non basta la guest-star Mel Gibson – Recensione

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Nel 1989 il veterano James Becker, un ex marine devastato dalla morte della moglie, viene reclutato da Stark, un ex collega ora consulente della difesa, per prendere parte ad un’operazione “non ufficiale” in America Centrale. L’obiettivo è quello di comprare armi da fornire a gruppi ribelli a Panama, ormai prossima all’invasione americana e in uno stato di pieno caos politico.

Becker, che accetta nella speranza di sfuggire ai propri demoni, si ritrova immerso in un mondo di traffici illeciti, generali corrotti e splendide donne, dove tutti mentono e nessuno è ciò che sembra. Quella che doveva essere una missione relativamente semplice si complica sempre di più e il protagonista viene trascinato in un labirinto di intrighi e tradimenti, tra le motivazioni dei ribelli e gli interessi di governi fantoccio che complicano inevitabilmente le cose.

Panama: non bastano i nomi – recensione

Cole Hauser, reduce dal successo televisivo di Yellowstone, prova a dare spessore a un ruolo scritto con i piedi, ennesima vittima di una sceneggiatura senza arte ne parte, che costruisce e disfa senza un minimo di logica o coerenza narrativa. Non fatevi attirare dal nome e dal volto di Mel Gibson pubblicizzato in pompa magna, giacché il popolare attore si limita sì e no a dieci minuti scarsi di presenza su schermo, guest-star di un’operazione low-budget pensata male e realizzata peggio.

La cosa più grave è che dietro la macchina da presa di Panama siede Mark Neveldine, colui che a inizio carriera ci regalò insieme al collega Brian Taylor l’adrenalinico dittico di Crank, con protagonista uno scatenato Jason Statham. Ebbene qui il regista è soltanto l’ombra di se stesso, schiavo delle dinamiche produttive di un b-movie che non ha nessuno spunto interessante, risultando anzi fin troppo inutilmente pretenzioso nelle sue presunte ambizioni geopolitiche.

Cambi di regime e di registro

L’aspetto complottistico si perde in una serie di banalità sul “male necessario” e sulla guerra come affare sporco, con le vittime collaterali quale prezzo da pagare. Ma il tutto viene affrontato con un approccio talmente superficiale da risultare involontaria caricatura, finendo per depotenziare l’intero racconto e di fatto le motivazioni dei contendenti, che rimangono bruchi senza mai diventare farfalle.

Con qualche scena di sesso gratuita qua e là, a innescare un pizzico di erotismo non richiesto dagli eventi, la vicenda è ambientata nell’esotica Porto Rico che pur non risplende mai in tutto il suo soleggiato splendore, castrata bai bivi di una storia che procede tra tempi morti e improvvis(at)e sortite action. Da corse su moto da cross del tutto gratuite a rocamboleschi inseguimenti a piedi a tempo di rock, l’anima ludica di Panama cerca di offrire un minimo di sprint in attesa di quella situazione di stallo finale, destinata ovviamente a concludersi come tutti si aspettano.

E quei moti rivoluzionari nel cuore della giungla, con molteplici richiami alla figura del Che e di suoi epigoni, non fanno che affossare ulteriormente la credibilità di un’operazione che non ha i mezzi, la mente e il cuore per affrontare tematiche così complesse e stratificate.

Conclusioni finali

L’intento sulla carta nobile di indagare e denunciare le responsabilità americane nei turbini geopolitici dell’America centro-meridionale non può esprimersi tramite una sceneggiatura così didascalica e superficiale, dove la rivoluzione e la lotta per la libertà vengono minimizzate in una trama da action-thriller di serie b o di leghe ancora inferiori.

Panama vorrebbe farsi forza sulla presenza di Mel Gibson quale guest-star, sfruttandolo nel prologo e nell’epilogo, ma il regista Mark Neveldine si dimentica di essere lo stesso di Crank (2006) e relativo seguito, limitando l’azione a un paio di sequenze poco ispirate e lasciando i personaggi in balia di una serie di eventi sempre più rocamboleschi e improbabili, in attesa di quella fine che sembra non voler arrivare mai.

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