Lord Doyle – vero nome Brendan Reilly – si sveglia nella sua lussuosa camera di un hotel-casinò di Macao, con i postumi di una pesante sbornia. L’uomo, che si spaccia per un aristocratico britannico, deve 350.000 dollari all’albergo, che gli ha dato un ultimatum di tre giorni prima della deportazione.
Ma come sottintende già il titolo del film, ovvero La ballata di un piccolo giocatore, Doyle è un giocatore compulsivo e invece di cercare razionalmente una potenziale via d’uscita continua a frequentare i tavoli di baccarat (un gioco d’azzardo molto diffuso), convinto che gli basti soltanto una grande vincita per uscire dai guai. Ad aiutarlo trova la bella Dao Ming, manager di un locale che lo vede come un’anima perduta e continua a lasciargli del denaro per tentare la sua impresa. Nel frattempo Doyle dovrà vedersela anche con Cynthia Blithe, un’investigatrice privata ingaggiata da una donna inglese da lui truffata in passato.
La ballata di un piccolo giocatore: fino alla fine – recensione
Ci troviamo davanti ad un film che punta quasi tutte le sue carte sul versante estetico, sacrificando una trama che, pur non priva di spunti potenzialmente originali, si rivela fin troppo frammentaria per risultare effettivamente compiuta. Una sceneggiatura convulsa quella di La ballata di un piccolo giocatore, che tira in ballo lo spiritualismo orientale quale contraltare delle necessità invece assai terreni del protagonista, vittima di una vera e propria dipendenza da gioco.
I cento minuti di visione partono così da una premessa affascinante, con l’ambientazione in quel di Macao a infondere ulteriore climax a sfondo mystery, ma si trovano a fare i conti con uno svolgimento non lineare che complica le cose e impedisce al pubblico di entrare pienamente nel cuore della storia e dei suoi personaggi, che restano solo in stato caricaturale.
Alla base vi è l’omonimo romanzo del 2018 di Lawrence Osborne, che guardava indubbiamente a Il giocatore di Dostoevskij cercando di aggiornarlo al nuovo millennio: impresa ambiziosa, ma che in forma scritta trovava sfumature ben maggiori.
Chi vince e chi perde
Colin Farrell corre, suda e fatica in un ritratto dell’ansia e dell’esasperazione che cerca di ancorare a terra un film dai voli pindarici, le cui ambizioni non trovano adeguata risposta nella concretizzata messa in scena. Non da meno sono le sue compagne di set, Fala Chen nelle vesti di figura potenzialmente salvifica e Tilda Swinton nei panni di quella detective che pende come una spada di Damocle sulle sorti del Nostro, in fuga non soltanto dai creditori ma soprattutto da se stesso.
Se nei suoi precedenti lavori, ossia il remake bellico Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022) e il thriller religioso Conclave (2024) il regista Edward Berger aveva trovato la giusta sintesi dando vita a opere impattanti e sorprendenti, in quest’occasione scambia l’eccesso estetico per profondità emotiva, facendola fuori dal vaso.
Ci troviamo così davanti ad una sorta di elegia per i perdenti, per quei “piccoli giocatori” che si illudono di poter diventare ricchi sperando in un colpo di fortuna, dove Macao sembra un’estasiante palcoscenico alieno, caleidoscopio di colori, riflessi infiniti in specchi e vetrate, una visione che sembra appartenere per l’appunto a un altro pianeta.
Conclusioni finali
Edward Berger confeziona un’opera visivamente eccellente – grazie soprattutto alla fotografia magistrale di James Friend che trasforma Macao in un luogo magico – ma narrativamente povera, tradita da una sceneggiatura confusa che corre a perdifiato come il suo protagonista, senza mai arrivare a comprendere la propria essenza.
Colin Farrell si impegna e suda letteralmente sette camicie, sostenendo sulle sue spalle un film vittima delle proprie ambizioni, dove l’eccesso stilistico assorbe la sostanza. E così La ballata di un piccolo giocatore perde di vista quei sussulti spirituali e melanconici, pur presenti qua e là , in favore di un esercizio visivo sì di prima grandezza ma fine a se stesso.









