Il figlio di mille uomini: tra realismo magico e spiritualismo esistenziale – Recensione

Il figlio di mille uomini

A visione terminata sembra ovvio dire come Il figlio di mille uomini appartenga a una categoria di opere che sfidano le convenzioni dello storytelling contemporaneo per recuperare una dimensione più lirica e poetica, vicina all’essenza primordiale del racconto classico. Diretto da Daniel Rezende, montatore di fama internazionale che qui firma la sua opera più matura dietro la macchina da presa dopo essersi già cimentato con successo in Bingo – O Rei das Manhãs (2017), il film adatta il celebrato e omonimo romanzo dello scrittore portoghese Valter Hugo Mãe, considerato da molti un testo inadattabile per la sua natura profondamente letteraria e sensoriale.

Ma andiamo con ordine, e scopriamo perché questa produzione approdata in esclusiva nel catalogo di Netflix a metà novembre rappresenti un film tanto concettualmente importante quanto potenzialmente non adatto a tutti i palati.

Il figlio di mille uomini e mille vite – recensione

Conosciamo il protagonista Crisóstomo mentre conduce la sua esistenza solitaria in un piccolo villaggio costiero del Brasile, tra le onde dell’oceano e una casa senza porte né finestre che si apre completamente alla natura circostante. L’uomo, pescatore di mezz’età, porta nel petto il peso di una mancanza che lo definisce e lo consuma: non è mai riuscito a diventare padre, un fallimento che sente come una condanna esistenziale in una società dove la paternità rappresenta ancora uno dei pilastri dell’identità maschile.

La sua quotidianità prende una svolta inaspettata quando incontra Camilo, un dodicenne rimasto orfano che come lui è solo al mondo e alla ricerca di un legame sincero. Crisóstomo comprende di aver finalmente trovato il figlio che tanto desiderava, anche se non legato a lui dal sangue, e Camilo a sua volta riconosce in quell’uomo silenzioso e gentile la figura genitoriale che gli è sempre mancata. I due incontrano poi Isaura, donna in fuga da un matrimonio non voluto, e Antonino, incompreso dalla comunità per via del suo orientamento sessuale e della sua sensibilità artistica.

Tutti insieme appassionatamente

La sceneggiatura affronta la sfida apparentemente impossibile di tradurre in immagini la prosa poetica di Valter Hugo Mãe, uno scrittore che ha fatto della manipolazione sperimentale della lingua il suo marchio distintivo. Un approccio che ha scelto di concentrarsi sull’umanità profonda della fonte all’origine, su quei sentimenti universali con i quali si è sentito completamente connesso. Il risultato è un film che respira attraverso i silenzi, che comunica attraverso gli sguardi, che racconta tramite la luce che cambia sui volti dei personaggi. Un realismo magico intimo e riservato, poco fantastico ma assai tangibile.

Allo stesso tempo però le due ore e rotti di visione rischiano di appesantirsi in alcuni passaggi e se è vero che la forza delle storie possiede un’anima primigenia legata allo spiritualismo e al senso stesso dell’esistenza, non tutti i capitoli in cui è divisa la narrazione possono contare sulla stessa gestione del ritmo e dell’ispirazione stilistica. Si avverte a tratti una certa discontinuità di montaggio e di messa in scena, che rischia di far perdere di mordente in quelle fasi centrali del racconto necessarie a traghettare verso il gran finale.

Conclusioni finali

Essere uomini, donne, genitori, figli, compagni e via dicendo in un racconto fiume che tenta, tramite il microcosmo di personaggi principali, di tracciare un’epopea esistenzialista sul significato dell’esistenza. L’impresa ciclopica di adattare l’inadattabile romanzo di Valter Hugo Mãe è vinta a metà, con una messa in scena potente e molteplici scene madri che si alternano a passaggi più stanchi e potenzialmente accorciabili.

In ogni caso Il figlio di mille uomini rimane un’opera intensa, visivamente sontuosa, in una rappresentazione che predilige la forza delle immagini alla pericolosa vacuità delle parole e sorretta da storie e personaggi che rappresentano il fluire del tempo in quella natura che tutto osserva, immobile cantrice di vite che vanno e vengono, di individui che tra loro son tutti “fratellastri”.

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