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Bones and All: un amore cannibale tra metafore e violenza – Recensione

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Stati Uniti, 1988. La diciottenne Maren Yearly ha trascorso l’intera vita spostandosi di città in città insieme al padre Frank. Una sera, invitata a un pigiama party dalle compagne di scuola, la ragazza morde selvaggiamente il dito di una delle partecipanti, amputandolo quasi completamente. Il ritorno a casa coperta di sangue con la conseguente fuga nel cuore della notte è l’ultimo atto che suo padre riesce a tollerare.

In Bones and All il genitore, poco dopo aver raggiunto la loro nuova destinazione, la abbandona al suo destino lasciandole del denaro, il certificato di nascita e una cassetta audio in cui le confessa finalmente la verità: Maren è una “mangiatrice”, come lo era sua madre prima di lei. Il primo episodio cannibalistico risale a quando aveva solo tre anni, con la sua babysitter. Rimasta sola, senza alcuna idea di cosa significhi essere ciò che è o se esistano altri come lei, Maren si mette in viaggio e incontra dei suoi simili, stringendo un legame sempre più stretto col coetaneo Lee.

Bones and All, recensione: sangue chiama sangue

In quest’adattamento del romanzo young adult Fino all’osso di Camille DeAngelis, Luca Guadagnino tenta di compiere un’operazione ambiziosa: utilizzare il cannibalismo non come semplice elemento horror o provocatorio, ma come potente metafora stratificata. Il regista palermitano trasforma l’America degli anni ’80 – quella del secondo mandato Reagan, quando l’epidemia di AIDS veniva colpevolmente ignorata e la queerness era violentemente stigmatizzata – in uno scenario quasi onirico, dove la bellezza naturale del paesaggio contrasta stridente con l’isolamento dei protagonisti e la violenza sempre più disperata.

Un tentativo ambizioso e non privo di spunti affascinanti, che però rischia a tratti di scadere in soluzioni involontariamente grottesche, epilogo in primis, dove la forza delle immagini prende il sopravvento su quella sostanza che pur non mancava, all’interno di un racconto che sfrutta la suggestiva premessa per innescare una struggente love-story on the road.

Nel cuore di un paradiso caduto

Bones and All procede con un ritmo deliberatamente lento e indefinito, privilegiando la deriva emotiva dei protagonisti mentre attraversano quelle campagne dimenticate, cittadine dove nulla accade ed è più facile commettere gli omicidi necessari a saziare la loro fame incontrollabile. I campi sconfinati e le highway deserte non offrono un senso di libertà ma anzi sottolineano il crescente isolamento delle due anime perse, in cerca di una vita normale laddove la normalità per loro è soltanto un’irraggiungibile utopia.

Non importa quanto lontano Mareen e Lee fuggano: non potranno mai scampare a ciò che sono. La colonna sonora di Trent Reznor e Atticus Ross accompagna il viaggio con composizioni minimaliste e ipnotiche che oscillano tra dolcezza e tensione, mentre il viaggio si compie tra romanticismo e crudezza.

Taylor Russell riesce a comunicare simultaneamente la fragilità di un animale ferito e la determinazione di un predatore affamato, intercettando quella zona grigia dove risiede l’umanità del suo personaggio. Timothée Chalamet è invece ideale bad boy disilluso, in pace con la propria natura mostruosa. Ma nel cast brilla la performance di Mark Rylance, in un ruolo che pur a rischio scult riesce a generare un sano terrore nelle scene in cui gioca una parte fondamentale negli eventi, fino a quel drammatico finale.

Conclusioni finali

Un road movie cannibale, che divora i suoi personaggi in un racconto tra romanticismo e disperazione, specchio di una società in profonda trasformazione sfruttante il relativo archetipo horror quale metafora stratificata dell’emarginazione, del desiderio (del) proibito e della ricerca d’identità nell’America reaganiana degli anni ’80.

Bones and All è un film affascinante e imperfetto, con un cast che trova la giusta chiave di lettura per i relativi personaggi e scene potenti nella loro violenza non trattenuta, ma che rischia di farsi dispersivo quando non freddamente didascalico, laddove il connubio tra eros e thanatos aveva come non mai modo di emergere in tutta la sua dicotomica crudeltà. Per due ore di visione intense e che non lasciano sicuramente indifferenti anche al netto degli spunti non pienamente elevati, rimasticati da uno stile che a tratti rischia di sostituirsi alla sostanza.

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