“Avemmaria”, intervista esclusiva a Fortunato Cerlino, Salvatore Esposito e Mario Di Leva

Film Cerlino

Un debutto alla regia sorprendente e carico di intensità quello di Fortunato Cerlino con Avemmaria, presentato nella sezione Zibaldone della 43ª edizione del Torino Film Festival. Ispirato al suo libro Se vuoi vivere felice e realizzato da Ventottodieci Produzioni, il film prende le mosse da vicende personali, ma pone al centro il peso dei desideri e la difficoltà di trasformarli in realtà. Il giovane Felice, interpretato da Mario Di Leva, tenta di liberarsi dal destino che lo circonda coltivando l’ambizione di cantare, sostenuto dagli insegnamenti della maestra Giulia. Nel quartiere di Pianura, però, la sua famiglia affronta la miseria e un clima segnato da brutalità e morte. In un ambiente dove un bambino può imbattersi in delitti e gesti estremi, sembra quasi proibito immaginare un futuro diverso. 

“Avemmaria”, intervista esclusiva a Fortunato Cerlino, Salvatore Esposito e Mario Di Leva

Noi di SuperGuida TV abbiamo video intervistato in esclusiva Fortunato Cerlino, Salvatore Esposito e Mario Di Leva. Per Cerlino passare dietro la macchina da presa è stata una bella sfida: “Mi sono divertito tanto a cimentarmi nella regia. Provenendo dal teatro, dove ho scritto e portato in scena diversi spettacoli, avevo già sviluppato il gusto per la scrittura e la regia. Mi mancava però il confronto con il cinema, un vero salto di qualità, perché richiede un controllo minuzioso di ogni aspetto. L’inquadratura diventa un campo semantico ricchissimo, da costruire nei più piccoli dettagli. Quest’amore per il particolare l’ho appreso dai grandi maestri con cui ho lavorato: da Polanski ho “rubato” tutto, osservandolo mentre, nonostante l’età, si inginocchia per spostare un tavolino o correggere di pochi millimetri un bottone affinché il vestito cada meglio. Il cinema impone questa dedizione al dettaglio, quando è fatto con passione, e io ho voluto mettermi alla prova proprio in questa arte”. 

Nel film, Salvatore Esposito dà volto a Felice ormai cresciuto, diventando una sorta di voce interiore che dialoga con il sé infantile. La sua presenza guida e commenta il percorso del protagonista, come un riflesso maturo che osserva e interpreta il passato: Sai, abbiamo lavorato intensamente con Fortunato, confrontandoci e sviluppando ognuno per conto proprio il percorso del personaggio e della storia. Poi ci siamo ritrovati sotto la sua guida, che considero davvero straordinaria. L’ho detto e lo ripeto: conoscevo già Fortunato come attore e come uomo, ma scoprirlo come regista mi ha colpito per qualità che non immaginavo. È riuscito, secondo me, a trasformare un racconto profondamente personale in qualcosa di universale, evitando cliché e senza lasciarsi intrappolare dai propri ricordi. Con Mario abbiamo condiviso quattro o cinque scene, senza mai accordarci su come comportarci o su quali gesti compiere. Eppure, riguardando il film, abbiamo scoperto di aver fatto entrambi piccoli movimenti simili, in modo istintivo. Questo è il cinema: una sorta di magia che accade senza che tu possa sempre spiegarla. E quando succede, è semplicemente meraviglioso”.

Sul suo rapporto con Salvatore Esposito, Mario Di Leva ha dichiarato: Ogni volta che devo prepararmi per un film, rivedo un grande classico del cinema. In questo caso ne ho scelti due: Otto e mezzo di Fellini, che racchiude l’essenza dell’arte di cui parla anche il nostro film, e Il padrino – Parte II. Mi interessava soprattutto osservare il modo di recitare: non pretendo certo di paragonarmi a Pacino, ma il personaggio di Felice parla poco e comunica quasi tutto attraverso gli sguardi, un po’ come Michael Corleone, che abbassava gli occhi e riusciva a dire mille cose senza aprire bocca. Ho cercato di ispirarmi, anche solo in parte, a quella capacità espressiva. Devo dire che con Salvatore ci conosciamo da tanto tempo, praticamente da quando ero ragazzino. Per me, da piccolo, lui era “quello di Gomorra”, Genny Savastano, quindi avvicinarmi a lui incuteva anche un certo rispetto. Ma sul set ci siamo trovati subito in sintonia. Come diceva anche lui, è scoccata una specie di magia, una scintilla che ci ha uniti tutti e tre, grazie soprattutto alla guida di Fortunato”. 

Fortunato Cerlino ha dedicato il film alla maestra Giulia, una figura che nella sua vita è stata molto importante: “Ho scelto di chiamare il mio personaggio Felice, mentre io mi chiamo Fortunato: un legame simbolico che sento profondamente, perché nella mia vita il destino mi ha davvero favorito mettendomi sulla strada dei maestri giusti fin dall’inizio. Sono persone che mi hanno preso per mano e mi hanno mostrato ciò che da solo non riuscivo a vedere. Questo film è anche un omaggio a loro, oltre che alla maestra Giulia, che per me è stata fondamentale. È stata lei, con la delicatezza di una carezza, a farmi voltare lo sguardo oltre il mondo difficile in cui vivevo, facendomi immaginare orizzonti più grandi, perfino la luna. Ricordo una lezione in cui parlavamo di Cristoforo Colombo: fu allora che incontrai per la prima volta la parola “angoscia”. Le chiesi cosa significasse e lei si mise a piangere; da quel pianto compresi la risposta. Una donna straordinaria, con cui sono ancora in contatto. E alla fine del film, senza svelare troppo, la voce che si sente è davvero la sua. Tutto ciò che sono lo devo ai maestri che ho incontrato. Ho avuto una fortuna immensa”. 

“Avemmaria” è l’altro lato di Gomorra. Nonostante oggi si continui a parlare di Napoli in termini di violenza e criminalità, Fortunato Cerlino e Salvatore Esposito sono ottimisti: “Sai, oggi più che mai credo sia fondamentale pensare al futuro dei nostri giovani. Da decenni, in Italia, vengono progressivamente tagliati i fondi destinati alla cultura e all’arte, e questo pesa soprattutto su chi vive nelle periferie. Troppi ragazzi trascorrono più tempo per strada che davanti a un palcoscenico, in un cinema o in una sala teatrale. È inevitabile, così, crescere un popolo arrabbiato, privo di stimoli e incapace di sognare. L’arte è il primo strumento che apre la mente, la cultura il secondo: insieme permettono di immaginare un mondo diverso, una vita migliore, e spingono a voler viaggiare, conoscere, scoprire. Senza questi nutrimenti diventiamo aridi, e l’aridità porta con sé la cattiveria. Per questo, invece di soffermarci soltanto sui problemi legati alla criminalità o alle periferie, dovremmo chiederci da dove tutto abbia origine. È una domanda che, credimi, nessuno sembra più porsi da anni, soprattutto chi dovrebbe farlo”, ha detto Esposito.

Cerlino ha concluso: Sottoscrivo pienamente ciò che ha detto Salvatore, perché credo che, oggi più che mai, la nostra unica possibilità di salvezza sia imparare a sognare di nuovo la realtà in cui viviamo, ricostruendola da zero con lo sguardo dei bambini. Questo film è dedicato anche all’infanzia, perché viviamo in una società che non è pensata per loro, né per le donne, né per gli anziani.  Mi sorprende sempre camminare con le mie figlie e notare che i semafori, alla loro altezza, appaiono spenti o poco visibili, come se non esistessero. Oppure che le strisce pedonali non siano colorate come un arcobaleno: mia figlia lo cerca ovunque e immagina quel mondo giocoso anche dove non c’è. Abbiamo città che non tengono conto del loro punto di vista. Li confiniamo nei parchi giochi, come se lo spazio del divertimento fosse solo quello, quando invece i bambini sanno insegnarci a giocare con la realtà stessa, nel senso più profondo e creativo del termine. Grazie al fatto che il bambino dentro di me non ha mai smesso di esistere, neppure ora che sono adulto, continuo a giocare interiormente. Ed è proprio questo, forse, il modo per salvarci: il cinema è un gioco, l’arte è il gioco del “facciamo sul serio”.

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