Molti appassionati di videogiochi si sono ritrovati a giocare nel 2015 al titolo cult di Supermassive Games, trovandosi col fiato sospeso davanti a ogni scelta, terrorizzati all’idea che un solo pulsante premuto al momento sbagliato potesse condannare uno dei protagonisti. Until Dawn era questo: un’esperienza interattiva che trasformava il giocatore in regista del proprio film horror, gestendo ogni decisione e rendendo ogni partita unica e irripetibile.
Dieci anni dopo, Sony Pictures e PlayStation Productions decidono di riportare quel mondo sul grande schermo, affidando la regia a David F. Sandberg – già noto per Lights Out (2016) e Annabelle: Creation (2017), nonché per lo sfortunato dittico di Shazam!. L’adattamento di Until Dawn – Fino all’alba è un’operazione che, pur non priva di qualche momento riuscito, perde per strada proprio ciò che rendeva unico il materiale di partenza.
Until Dawn: corsa contro il tempo – recensione
All’inizio del film troviamo Clover mentre cerca di ricostruire gli ultimi passi della sorella Melanie, misteriosamente scomparsa un anno prima nei pressi di Glore Valley, un’area mineraria su cui aleggia un inquietante mistero. Insieme lei ci sono l’ex fidanzato Max, le amiche Megan e Nina e il ragazzo di quest’ultima, Abe. Il gruppo si imbatte in una casa isolata in mezzo al nulla, sospesa in una sorta di limbo dalla tempesta che furoreggia su ogni altro versante.
Gli spaesati visitatori cominciano a essere vittima di un feroce assassino mascherato che li stermina uno dopo l’altro. Ma invece di morire definitivamente, i protagonisti di Until Dawn – Fino all’alba si risvegliano all’inizio della stessa serata, intrappolati in un loop temporale dove ogni notte porta con sé una diversa minaccia mortale. L’unica speranza per uscirne vivi è quella di sopravvivere fino all’alba, un’impresa tutt’altro che semplice.
Dai pixel a carne, sangue e ossa
Questa premessa, potenzialmente intrigante, venga sviluppata in maniera tutt’altro che soddisfacente. A tratti sembra di assistere ad una sorta di improbabile incrocio tra il dittico di Auguri per la tua morte – con il loop temporale che fa resuscitare di volta in volta i personaggi – e Quella casa in fondo al bosco (2011) – per via della magione sperduta dove ha luogo la vicenda.
Peccato che non vi sia un necessario background che spinga al pubblico a identificarsi con i personaggi, che come nella classica tradizione slasher rimangono esclusivamente carne da macello. All’inizio scopriamo che sono lì sulle tracce della sorella di una di loro, ma è un espediente narrativo talmente flebile e mal organizzato da non poter essere mai preso sul serio.
Pur a dispetto di quanto appena scritto, Until Dawn – Fino all’alba riesce a offrire in ogni caso qualche momento di istintivo divertimento, sempre richiamandosi ripetutamente agli archetipi, dagli jump-scare agli eccessi splatter, con richiami qua e là ai creature-movie nella gestione delle mutate entità che danno la caccia a questi ragazzi sprovveduti. Con Peter Stormare, già guest-star dell’originale videoludico, che ritorna questa volta in carne e ossa quale villain – mastermind da affrontare per uscire vivi da quell’incubo senza fine.
Conclusioni finali
Un’esperienza ludica profonda e stratificata, che metteva i giocatori davanti al peso delle proprie scelte, si trasforma in quest’adattamento per il grande schermo in un film generico e dispersivo, che rinuncia alla complessità narrativa e alla caratterizzazione dei personaggi in favore di una carrellata di cliché horror mal collegati tra loro.
In Until Dawn – Fino all’alba il meccanismo del loop temporale, sulla carta accattivante per giustificare il respawn dei personaggi, viene sfruttato in maniera confusa e incoerente, con figure che restano anonime pedine di una partita con la morte dall’incerta genesi. Novanta minuti di visione che, pur offrendo qualche sporadico brivido all’insegna del divertimento, tradiscono sistematicamente lo spirito del materiale all’origine.