Leon K. Prudhomme è un ex ufficiale decorato dell’esercito statunitense che ha fondato il Programma, una comunità di sostegno per veterani di guerra affetti da disturbo da stress post-traumatico. Uomini dimenticati dal Paese per cui hanno combattuto, in cerca di un potenziale nuovo inizio. Ma sotto la facciata idealistica, Prudhomme si è in realtà reinventato quale carismatico leader di una setta, ha acquisito il soprannome di Bokushi e trasformato il gruppo in un culto della morte, assetato di vendetta contro il governo.
Ora l’anziano Emmanuel Ashburn intende eliminarlo prima che la sua organizzazione possa rappresentare un serio pericolo per l’ordine precostituito e per farlo ha bisogno dell’aiuto di Nash Cavanaugh, un ex affiliato che ha abbandonato il Programma dopo la morte della moglie. Insieme ad altri soldati fidati, Nash sarà a capo di un’incursione nel complesso di Bokushi, ignaro di ciò che lo attende.
Tin Soldier: questioni di identità – la Recensione
Se la sinossi appena esposta vi è parsa complicata, vi consigliamo di non accingervi nella visione del film, che si ingarbuglia sempre di più in un polpettone senza capo né coda. Ottanta minuti di visione, raggiunti a stento, nei quali accadono un sacco di eventi sconclusionati e dove i vari personaggi si trovano al centro di anemiche sequenze action o di gratuiti vagiti melodrammatici, con buona pace della coerenza narrativa.
Ciò nonostante Tin Soldier ha scalato la classifica dei titoli più visti nel catalogo di Amazon Prime Video – al momento in cui scriviamo è addirittura al primo posto – probabilmente grazie al cast che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto garantire maggiori sicurezze. Robert De Niro, in un semplice cammeo, è abituato da tempo a partecipazioni in produzioni di basso livello, meno scontata la presenza di Jamie Foxx nelle vesti di un folle villain sopra le righe. Il ruolo di protagonista è invece affidato a Scott Eastwood, che in alcune inquadrature ricorda sempre più papà Clint, senza possederne però pari carisma.
Niente da salvare
Il problema è che nulla, a cominciare dalla storia che lega le varie sottotrame fino ai personaggi stessi, è in grado di suscitare un minimo di interesse, con soluzioni inverosimili e flashback rutilanti che si susseguono senza sosta, fino a quella resa dei conti finale in un’arena improvvisata, dove la logica del “picchia più forte” premia i contendenti. Le scelte di montaggio schizofrenico non fanno che peggiorare le cose, con esplosioni e sparatorie qua e là senza un preciso motivo cronologico se non quello, forse, di ridestare uno spettatore già addormentato.
Difficile comprendere come il regista Brad Furman, che in carriera ha firmato titoli gradevoli come il legal-thriller The Lincoln Lawyer (2011) e il bio-pic The Infiltrator (2016), si sia potuto imbarcare in un prodotto così fallimentare, rendendosi anche colpevole in fase di scrittura in quanto co-autore della sceneggiatura, scritta a ben sei mani.
Tin Soldier sembra una sorta di mostro di Frankestein, tagliato e rimontato per arrivare a una durata minima tale da definire la definizione di lungometraggio, senza amore o ispirazione alcuna. Se nelle premesse era forse altro non ci è dato saperlo, ma il risultato è quanto mai difficile da commentare.
Conclusioni finali
Un’operazione confusa e priva di identità, che sembra frutto di un montaggio frettoloso e disordinato che complica ancor di più una storia che già di senso non sembrava averne molto. Nonostante un cast di volti noti(ssimi), tra brevi partecipazioni da guest-star e villain schizofrenici, il risultato finale è un film improbabile, per usare un eufemismo.
Tin Soldier si spegne in sottotrame inconcludenti e in flashback ridondanti, che non riescono a costruire alcuna tensione narrativa e si affidano a scene d’azione di raro anonimato. E la brevissima durata è forse il solo punto di forza, in quanto mette fine all’imbarazzo generale senza allungare ulteriormente e inutilmente il brodo.