C’è un paradosso feroce nel film di Kaouther Ben Hania, presentato a Venezia: la guerra non appare mai, eppure invade ogni istante. The Voice of Hind Rajab è girato tutto in una stanza, 90 minuti di claustrofobia in cui l’unico filo con il mondo esterno è la voce registrata di una bambina di cinque anni. Non ci sono bombe, gli spari si sentono solo, eppure il film è più devastante di qualunque reportage di guerra. Perché la voce di Hind non è finzione, ma realtà. È il respiro di chi non ce l’ha fatta, l’eco dei ventimila bambini uccisi a Gaza dall’inizio del conflitto.
“The Voice of Hind Rajab”: quando la politica tace, è il cinema a parlare
La ricostruzione è fedele, in bilico tra documentario e finzione, con le telefonate che si fondono con un cast straordinario capace di trasformare la cronaca in uno dei momenti più drammatici del grande schermo. Un’opera tanto semplice quanto straziante nella sua autenticità. Sconvolgente come il periodo storico che stiamo vivendo.
La scelta registica di mantenere la voce originale di Hind Rajab non è soltanto un atto artistico: è una presa di posizione politica. In un’epoca in cui la guerra è anche guerra dell’informazione – con i giornalisti impediti a entrare a Gaza, con i media locali nel mirino – il cinema si trasforma in archivio della memoria, in tribunale delle coscienze. Ben Hania lo ha detto con chiarezza: “Mi sembrava un tradimento farla doppiare”. Dare spazio a quella voce significa rompere il silenzio imposto, restituire parola a chi l’ha persa.
Il film non chiede solo empatia, ma giustizia. Lo ha ricordato l’attrice Saja Kilani con un appello che va oltre il tappeto rosso: “La vera domanda è come sia stato possibile che questa bambina ci chiedesse di essere salvata”. Un grido che interroga non soltanto le coscienze individuali, ma la politica internazionale, colpevole di aver normalizzato l’orrore.
C’è poi un altro elemento politico: la presenza di Hollywood. Brad Pitt, Joaquin Phoenix, Alfonso Cuarón, Rooney Mara e Jonathan Glazer non sono solo nomi che fanno notizia, il loro sostegno al film indica una frattura nell’establishment culturale americano, che sceglie di mettere il proprio prestigio a disposizione di un racconto scomodo. È un atto di schieramento, un’alleanza simbolica tra cinema indipendente e star system per dare forza a una storia che rischiava di restare sepolta sotto le macerie, come la sua protagonista. La forte presenza di Joaquin Phoenix e Rooney Mara sul red carpet rafforza questa forte presenza.
La cornice della Biennale
Infine, non è secondaria la cornice della Biennale. Accusata di aver censurato Gaza e di aver dato spazio ad artisti israeliani, la Mostra ha invece offerto a questo film una risonanza e una mediatizzazione senza precedenti. La sua presenza in concorso è di per sé un atto politico: l’arte che si mette a servizio della storia, capace di rompere filtri e narrazioni preconfezionate.
La riflessione si allarga poi al dibattito interno al mondo culturale israeliano: “Le persone sono diverse e hanno pensieri diversi. Non si sceglie dove si nasce, ma penso che tutte le persone siano responsabili delle proprie opinioni e delle proprie posizioni. Viviamo in un momento in cui anche gli oppositori del regime in Israele si trovano in una posizione non facile. Credo che sia estremamente coraggioso esprimersi contro il genocidio da cittadini israeliani all’interno del regime”, ha detto Ben Hania. E sulla richiesta di boicottaggio a Gal Gadot, l’attrice che ha espresso sostegno all’esercito israeliano, la regista ha precisato: “Ho sentito parlare della richiesta di boicottaggio, ma in realtà non è successo tutto questo. È lei che non è voluta venire”.
Applausi interminabili, ventiquattro minuti di emozione collettiva, non cancellano la ferita. Ma la trasformano in memoria condivisa. Sembra quasi far soffocare lo spettatore agonizzante nello scorrere dei minuti delle telefonate. The Voice of Hind Rajab diventa così un manifesto: contro l’oblio, contro la rimozione. È la dimostrazione che il cinema non può fermare le guerre, ma può incrinare le narrazioni ufficiali, può ridare voce a chi è stato ridotto al silenzio.
Non è un film su Gaza: è Gaza stessa che parla. Hind Rajab diventa metafora di un popolo intero, ma resta bambina, con la sua voce spezzata che implora soccorso. E ci lascia un interrogativo che nessuna analisi geopolitica riuscirà mai a dissolvere: cosa significa continuare a parlare di pace quando i bambini chiedono solo di essere salvati? La ricostruzione di questo drammatico mancato salvataggio, di una ambulanza crivellata dall’esercito israeliano, è la fotografia di quanto sta accadendo nel silenzio straziante della politica internazionale.