Mentre stava cercando di catturare un sospettato, il detective Frank Shaw è rimasto investito da un camion e il violento urto gli ha provocato gravi danni all’udito, che sta peggiorando di giorno in giorno, conducendolo pian piano alla completa sordità. A sedici mesi da quel drammatico incidente, il protagonista di The Silent Hour è tormentato dalla situazione in cui si trova e sta pensando di dimettersi in quanto non si ritiene più utile al dipartimento.
Un collega di vecchia data, il detective Doug Slater, lo contatta affinché gli faccia da interprete per interrogare una una testimone di un omicidio, anch’essa sorda, che vive in un palazzone di periferia, luogo di rifugio per reietti e piccoli criminali. Ma quando la ragazza finisce nel mirino di alcuni uomini armati, Shaw si ritroverà a doverla proteggere, scoprendo di non potersi fidare di nessuno e dovendo venire a patti con il suo debilitante handicap.
The Silent Hour: questione di percezione – recensione
Il regista Brad Anderson in carriera ha saputo regalarci opere di notevole spessore e tensione psicologica come Session 9 (2001) e L’uomo senza sonno (2004), esplorando con coerenza e lucidità le zone d’ombra della psiche umana, adattandole all’occasione a un solido cinema di genere. Dopo alcuni lavori meno riusciti, ci riprova con The Silent Hour, action-thriller che parte da una premessa intrigante quale quella che vi abbiamo esposto poco sopra.
La scelta di rendere assoluto protagonista un poliziotto che ha perso la capacità di sentire aveva delle potenzialità sulla carta enormi, ma l’ora e mezzo di visione finisce per sprecarle limitandosi a un compitino di routine, senza che il reale deficit del detective sia verosimilmente sfruttato nei sempre più concitati eventi. Anzi, in diverse occasioni si ha l’impressione che la sordità vada e venga a seconda dell’utilità narrativa, troncando la verosimiglianza e consegnandoci a conti fatti un film come tanti, avulso dalla sua presunta peculiarità.
Laddove arriva lo sguardo
Un palazzone fatiscente quale teatro di una resa dei conti senza esclusione di colpi. L’ambientazione, che aveva regalato enormi gioie in cult come The Raid (2011) o Dredd – Il giudice dell’apocalisse (2012), permette ai personaggi di interagire sui vari piani, con l’ascensore quale elemento determinante nella maggior parte delle sequenze chiave, sali e scendi provvidenziale quando le cose si mettono per il peggio.
La sceneggiatura non offre molte sorprese di sorta, con il colpo di scena sull’identità del capo dei cattivi che appare chiaro ed evidente a tutti fin dalla sua prima comparsa e l’epilogo dallo sprint catartico che chiude un cerchio consolidato, perfettamente rotondo da far invidia a Giotto. La storia dell’agente incorruttibile e tormentato che deve affrontare i suoi ex colleghi corrotti è un topos del genere, e The Silent Hour la percorre senza particolari scarti o rielaborazioni critiche.
La messa in scena è sicura e controllata, capace qua e là di generare una discreta tensione a tema, ma questa professionalità finisce per apparire uno sterile esercizio di stile, privo di azzardi che sfruttino la sordità del Nostro e le relative problematiche. Joel Kinnaman è diligente nel ruolo del protagonista, pur avendo poche possibilità di esplorare il lato drammatico del personaggio, ma risultando credibile nel linguaggio dei segni appositamente imparato per il film. Va peggio a Mark Strong, attore e caratterista di indubbio talento che troppo spesso si ricicla in ruoli uguali l’uno all’altro, che non gli rendono giustizia.
Conclusioni finali
Un film che bisbiglia quando invece avrebbe dovuto urlare tutta la sua rabbia, incarnandola in un protagonista che accetta passivamente quella sordità che, a conti a fatti, risulta pressoché ininfluente nei termini di una narrazione fin troppo canonica e priva di spunti originali ad essa collegata.
The Silent Hour aveva diverse frecce al suo arco ma ha avuto paura di scagliarle, con quell’audio che va e viene, che si alza o si abbassa, ad accompagnare la prevedibile missione di protezione e reazione di un detective e di una scomoda testimone, alle prese con poliziotti corrotti in un fatiscente palcoscenico di periferia di stampo relativamente classico. Il solido mestiere di Brad Anderson in cabina di regia limita i danni, ma le potenzialità sono rimaste inespresse.