Dopo il successo della prima data “pilota” tenutasi martedì 25 novembre, mercoledì 3 dicembre I Metalmeccanici e Pacifico sono tornati al Volvo Studio Milano con lo spettacolo “TURBO-LENTO – Il turbolento viaggio della PV544”, l’operetta da camera elettroacustica in due tempi di Angelo & Alessandro Trabace e Sebastiano De Gennaro. “TURBO-LENTO – Il turbolento viaggio della PV544” verrà replicato anche il 9 e il 16 dicembre. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con Volvo Studio Milano e Ponderosa Music&Art. Noi di SuperGuidaTv abbiamo intervistato Pacifico: ecco cosa ci ha raccontato.
Intervista a Pacifico
Turbo-Lento è un progetto molto particolare, quasi un’operetta visionaria. Cosa l’ha colpita subito dell’immaginario creato dai Metameccanici e cosa l’ha convinta a diventare il “pilota-narratore” di questa macchina che prende coscienza di sé?
Una macchina, un’autovettura, che si augura di fallire, che non vuole andare da nessuna parte. Che non ha abbastanza rabbia o fame per partecipare alla gara che si tiene giornalmente nella giungla di catrame. Insomma, scrivere dell’idea, della credulità e dell’impegno che ci vuole per realizzarla. E di come questa idea possa non portare a nulla, l’auto si ostina a essere inconcludente, vuole girare a vuoto. Mi ha ricordato quei pionieri che si costruivano le ali col cartone e le piume, e si buttavano dal tetto della fattoria, per sfracellarsi inevitabilmente al suolo. C’erano mille motivi per appassionarsi a questo glorioso passo falso.
La Polysinth PV544 è un veicolo-sonoro unico nel suo genere. Lei che è abituato a far dialogare parola e musica: come cambia il suo modo di raccontare quando al centro della scena c’è uno strumento “vivente”, un’auto che diventa suono?
Ogni artista sta lì col pollice alzato, sperando passi un veicolo su cui montare in corsa. Un oggetto artistico diverso, un formato imprevisto, qualcosa di inusuale grazie al quale liberare l’immaginazione. Per potere estrarre da chissà dove vocaboli o soluzioni che in canzone sarebbero inopportune. Io quando vedo quello spazio indefinito non resisto. Sono abituato a restare lucido sulle canzoni, o almeno a provarci. A togliere, a cercare la frase significante, e spesso questo è più un lavoro di precisione che di libertà espressiva. Proprio per questo, se si può salire su un tappeto volante e cominciare a scrivere io non mi tiro mai indietro.
Lo spettacolo racconta un esperimento audace ma fallimentare: una macchina che entra in crisi e rifiuta la competizione. In cosa rivede, se c’è, un parallelismo con il suo percorso artistico, fatto spesso di scelte controcorrente?
Sicuramente la mia storia, in certe disfatte, come in certe piccole rivincite, assomiglia alla parabola della Polysinth. Ma credo questo valga per molti artisti, anzi, meglio: per molte persone. Tutti abbiamo idee assurde, che magari sono destinate a fallire, ma che per il tempo in cui riusciamo a seguirle e a tenerle vive ci animano, ci accendono. Non rimpiango nessuna intuizione assurda e poco sensata che ho assecondato. Mi sono costruito giocattoli per entrare in scena, diffusori di bolle di sapone, ho una collezione di fischietti, di piccole macchine caricate a molla. Ho creduto in certe canzoni, in un certo mio modo di stare in scena. Mi sbagliavo. Ma le ore passate progettando quelli che si sono rivelati fallimenti mi sono care. E indispensabili.
Negli ultimi anni ha alternato musica, scrittura, teatro, collaborazioni con artisti molto diversi. Dove si colloca Turbo-Lento in questo suo continuo attraversare linguaggi? È una parentesi, un laboratorio, un nuovo modo di stare in scena?
È uno dei pregi dell’invecchiare, dell’accumulare, dell’esperienza. Ho la sensazione che le cose che so fare, o che almeno provo a fare, stiano convergendo in un unico approccio, in un’unica, diversificata proposta. Da me può arrivare una canzone, un libro, un’attenzione gregaria alla scrittura di un altro artista, una colonna sonora. Posso raccontare in scena, posso suonare la chitarra per un collega. Non sono riuscito ad essere una cosa sola. Che è assieme l’ammissione di un limite, e un’opportunità.
Ha scritto per alcuni dei più grandi interpreti italiani, da Nannini a Morandi, da Ramazzotti a Giorgia. Dopo un progetto così sperimentale come Turbo-Lento, sente il desiderio di tornare alla scrittura “classica” per altri o questa esperienza cambierà il suo modo di comporre?
Scrivo sempre cose differenti nello stesso momento. È un po’ come avere sul comodino libri diversi. Mentre lavoravo al materiale dei Metameccanici, scrivevo canzoni con altri. E canzoni per me, che registrerò a breve. Naturalmente ci sono differenze. Ma alla fine sono sempre io che cerco di manipolare il materiale che mi viene dato, o che mi procuro da solo. Quindi non sento di aver divagato, di essere andato dove il sentiero non era già calpestato. Allo stesso modo, non sento l’urgenza di ritornare sulla strada conosciuta.
Lettera in ricordo di Ornella Vanoni
A pochi giorni dalla scomparsa di Ornella Vanoni, chiediamo a Pacifico un ricordo personale dell’artista. Pubblichiamo di seguito una sua lettera.
Per Ornella, 22 novembre 2025
Ho avuto la fortuna che abbiamo avuto tutti, quella di ascoltarla. I grandi artisti si appiccicano alle persone che amiamo, quelli che ci girano per casa. Ornella stava sulle spalle di mia madre, che affrontava armata di straccio la finestra cantando l’Appuntamento, sostituendo il testo con un insistito nananana, per poi scandirlo corretto e a squarciagola sul ritornello, “… Amore fai presto, io non resistoooo”, passaggio cantato con rinnovato vigore per accompagnare il gesto necessario a togliere un alone resistente dalla vetrata. Ornella veniva giù dalla radiolina sul frigorifero, appena dopo un notiziario, mentre il caffè risaliva allegro e riempiva la cuccuma – mio padre ignaro del potenziale criminoso dello zucchero, ne versava dentro un paio di cucchiaini abbondanti, mescolandolo al caffè direttamente nella caffettiera. Ornella usciva dalla radio estraibile della Seicento, o della Simca, o della Panda – sempre avuto un debole per le fuoriserie in famiglia. E chissà in quante docce, in quanti abitacoli, in quanti impianti stereofonici gracchianti o ad alta fedeltà c’era Ornella. Per non dire della televisione, o del cinema. Si dice degli artisti “era uno di casa”, mi sembra appropriato.
Poi ho avuto il privilegio di frequentarla. Un primo incontro anni fa, grazie a Mario Lavezzi, nel suo magnifico appartamento di Largo Treves. Poi c’è stato un Sanremo insieme, una canzone bellissima scritta per lei con Francesco Gabbani. E infine il privilegio di starle vicino per un anno e mezzo continuativamente, per scrivere la sua biografia. O meglio, come puntualizzava, il suo Diario Sentimentale.
Mi aspettava, immancabilmente elegante, nel salotto, seduta in poltrona, incorniciata nella finestra. In quella finestra ho visto le giornate buie già dal primo pomeriggio, l’intermittenza delle luminarie natalizie – che detestava. Poi la finestra l’ho vista aperta due dita, per far entrare la primavera tiepida. E infine di nuovo l’ho vista chiusa, nel tentativo di resistere all’assedio dell’afa. A volte mi accoglieva con un ricordo urgentissimo, “scrivi scrivi, che se no lo perdo!!” Altre volte era in silenzio, di profilo – mi stupiva, non mi ero accorto di quanto fosse bello il suo profilo.
Con gli occhi puntava il muro, lo trapassava e si allontanava. Ogni tanto trovava qualcosa e mi chiamava, io accorrevo e segnavo. Era come stare con una cesta sotto un grande albero capace di spostarsi, che ogni tanto si scuoteva e lasciava cadere frutti. Era notoriamente spiritosissima, di quell’umorismo milanese che avevano perfezionato, intorno ai tavoli di bar e osterie, lei, Jannacci, Gaber e Pozzetto. La battuta era implacabile, un bisturi, caustica ma mai malevola. Più che altro un ridimensionamento bonario, “se, ciao, è arrivato il Maradona!!”. Essendo io un musicista, la prossimità, la frequentazione, mai mi ha fatto perdere di vista la grandezza dell’artista che avevo davanti. E uno dei ricordi più vibranti che ho, ancora e spero per sempre acceso dentro, è la sua figura, vista da dietro il pianoforte, sul palco di Sanremo. Di tre quarti, le guance con ancora sopra le pugnalate di una lontana acne. Dritta, maestosa, che rovesciava sulla platea quella voce e tutto il teatro, tutto lo champagne, tutta la depressione, tutto il sesso, tutta l’amicizia, tutto il dolore, tutto l’appetito, tutto il divertimento che è stata capace di accumulare.
Spadaccina implacabile e vittoriosa contro avversari che non potevano minimamente tenerle testa, la Noia, il Prevedibile, la Prudenza. Tutti a terra, uno dopo l’altro. Mi infilo nel coro di ringraziamenti. E cercherò, nonostante tutto il mio impaccio, di sostenere fino alla fine il tuo proposito: “Non puoi risparmiare nella vita, in amicizia come in amore, non puoi essere tirchio. Se sei al mondo, non puoi non partecipare. Nel fuoco delle passioni bisogna entrarci. E io dell’amore conosco l’ustione”.