La Polinesia Francese è un vero e proprio paradiso per gli amanti delle spiagge e del surf. E così è anche per Sarah, Hazel, Jennifer e Alicia, quattro amiche appassionate della tavola alla ricerca di onde mai cavalcate da nessuno. Le ragazze assumono Sam, un ex militare riciclatosi come capitano di una piccola barca, affinché le conduca su un’isola misteriosa, cancellata da tutte le mappe.
In Pacific Fear il traghettatore avverte Sarah che nessuno è mai tornato da quel luogo e raccomanda loro di non allontanarsi troppo dalla riva, dandole un walkie talkie con un raggio di dieci chilometri per segnalare qualsiasi problema. L’inizio di quelle idilliache 48 ore lontane da tutto sembra dei migliori, ma il giorno successivo le protagoniste vengono attaccate da degli individui tribali, emersi improvvisamente dalle acque, e si ritrovano catapultate in un incubo ad occhi aperti.
Pacific Fear: nel cuore dell’apocalisse – recensione
Il prologo che ci mostra i filmati degli esperimenti nucleari francesi condotti in Polinesia nel corso dei decenni, che hanno alterato profondamente il clima e il territorio con disastrose conseguenze per la salute degli abitanti, è già un campanello d’allarme per chi si approccia alla visione di Pacific Fear senza avere idea della trama e del genere d’appartenenza. Per quanto il titolo dovesse essere già abbastanza suggeritore di quanto a venire.
Ed eccoci così di fronte a un horror via via sempre più selvaggio, che guarda a capolavori totali come Apocalypse Now (1979) nella rappresentazione del contesto e di alcuni personaggi, villain principale incluso, in una rimasticazione, a dire il vero relativamente soft, della violenza brutale che proprio il cinema di genere transalpino ci ha regalato nel nuovo millennio, vedere Martyrs (2008) e Alta tensione (2003) per credere.
Un film che affonda
Il problema è che l’operazione si rivela troppo esile nei suoi risvolti chiave, con diverse forzature nella gestione dei rapporti tra le quattro protagoniste e un generale appiattimento delle dinamiche, che da metà in poi si risolve in un “gioco del gatto col topo” destinato alla più canonica resa dei conti. Peccato che l’epilogo risulti abbastanza improvvisato e che non via un concreto senso di soddisfazione per come si è risolta la storia. Si aggiungono colpi di scena che poco cambiano nel costrutto complessivo e una crudeltà più gratuita e suggerita che effettivamente sconvolgente.
I sensi di colpa della protagonista, interpretata da una comunque risoluta Adèle Galloy, si basano sulla facile morale del “chi è causa del suo mal, pianga se stesso“, ma lo scavo psicologico delle varie figure coinvolte, buone o cattive che siano, è ridotto ai minimi termini.
Il regista Jacques Kluger mantiene un discreto ritmo per l’ora e mezza, scarsa, di visione, e il fascino suggestivo di quell’ambientazione selvaggia cela incognite primordiali, ma Pacific Fear si rivela un film incompiuto e sin troppo derivativo.
Il film è disponibile nel catalogo di Amazon Prime Video.
Conclusioni finali
Tra acque cristalline e memorie radioattive, Pacific Fear promette il paradiso alle giovani protagoniste, surfiste in cerca di luoghi incontaminati, ma a conti fatti regala loro l’inferno. Un luogo remoto popolato da paure antiche e da colpe moderne, frutto dell’uomo e della sua ansia belligera, è teatro di una mattanza che richiama al cinema cannibalico e a classici senza tempo.
Il risultato è però un film fiacco, con una violenza a tratti gratuita ma mai realmente cattiva e incisiva, con la lotta per la sopravvivenza della combattiva protagonista a caratterizzare una seconda metà di visione che si carica di forzature e inverosimiglianze.