Come sa ogni spettatore che osserva il cinema come più di un semplice passatempo, vi sono opere che trascendono il giudizio critico per diventare esse stesse un evento, un gesto artistico così totalizzante e personale da sfuggire alle consuete categorie critiche.
Megalopolis, il progetto che Francis Ford Coppola ha inseguito per oltre quarant’anni, finanziandolo con i proventi di una vita, è un’opera incandescente che viaggi sugli estremi.
Un film-mondo, un trattato filosofico, una favola futurista: il rischiatutto imperfetto di un maestro che, come il protagonista della storia, ha cercato di fermare, metaforicamente e letteralmente, il tempo per veicolare un’utopia, finendo per mostrarci le rovine di un sogno infranto nelle sue stesse ambizioni.
Megalopolis: di tutto e di più – recensione
Il racconto è ambientato in una metropoli chiamata New Rome, specchio di una New York trasfigurata in un crogiolo decadente e artistico, dove si consuma lo scontro tra due antitetiche visioni del mondo. Troviamo da un lato, Cesar Catilina (un Adam Driver investito di un peso messianico), architetto geniale e idealista, detentore del segreto di un materiale rivoluzionario, il Megalon.
Dall’altro invece il sindaco Franklyn Cicero (un misurato Giancarlo Esposito), uomo di potere pragmatico e corrotto, ancorato al cinismo di un presente incerto. Due figure agli antipodi, che non si sopportano, che si ritrovano loro malgrado a far buon viso a cattivo gioco. Tra loro infatti vi è la figlia del primo cittadino, l’affascinante e dolce Julia (Nathalie Emmanuel), contesa tra la lealtà paterna e la seduzione della visione utopica di Cesar.
L’occhio vuole la sua parte
Ma il cuore pulsante di Megalopolis non risiede nel suo sbilenco e caotico impianto narrativo, tanto potente quanto paradossalmente innocuo a conti fatti, bensì nella sua smisurata ambizione intellettuale. Coppola mette in scena una grandiosa e plateale parabola sul tramonto degli imperi, sovrapponendo la caduta di Roma a quella dell’America contemporanea con una sfrontatezza quasi ingenua e con un pessimismo tale da farsi profetico del ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca.
Il film si presenta, immaginificamente, quale un flusso di coscienza sovraccarico di dialoghi e citazioni colte, di interrogativi esistenziali sul ruolo dell’artista, sulla natura del tempo e sulla possibilità di un domani in un’epoca votata all’autodistruzione. È un cinema di idee, che prendono spesso il sopravvento sui personaggi, pedine più o meno inermi in un dramma allegorico.
Dall’alto in basso e dal basso in alto
È nella messa in scena, tuttavia, che l’opera di Coppola si rivela in tutta la sua magniloquente e problematica natura. L’estetica di Megalopolis è un assalto sensoriale, un collage di immagini e pulsioni che mescola con audacia sfacciata la computer grafica, fondali teatrali, proiezioni e tonalità cromatiche viranti dall’oro saturo al cupo della notte. Il risultato è un caos visivo discontinuo e ammaliante, che alterna intuizioni di folgorante bellezza a imperdonabili scivoloni nel kitsch.
Coppola cerca di interagire con la sala stessa, in un momento di metacinema che non rende appieno nella visione casalinga, in un’opera contenitore che appare più come un delirio seducente che una costruzione dalle solide fondamenta.
In questo teatro dell’assurdo, il cast naviga a vista, spesso schiacciato dal peso filosofico dei dialoghi. Adam Driver incarna con dolente fisicità il suo profeta tormentato, mentre un contorno d’eccellenza (da Jon Voight a Shia LaBeouf, da Dustin Hoffman ad Aubrey Plaza) dà vita e voce a maschere grottesche di una società decaduta. E Megalopolis è così, un film che vive di sfuriate e di momenti di stanca, mantenendo sempre e comunque, anche nelle sue evidenti sbavature, un’amore per il Cinema con la C maiuscola.
Il film è disponibile su Amazon Prime Video nel canale MUBI e sulla relativa e omonima piattaforma di streaming.
Conclusioni finali
Giudicare Megalopolis con i tradizionali strumenti della critica rischia di essere un esercizio tanto necessario quanto sterile. Ci troviamo infatti davanti ad un’opera smisurata, tracotante, a tratti insostenibile nel suo gratuito esistenzialismo. Ma al contempo è impossibile non rimanere affascinati da un atto di fede così puro e disperato, in quella fabbrica dei sogni che crea e disfà a proprio piacimento.
Una scommessa, e amen sia stata persa, di Francis Ford Coppola, che anche nel cuore del crollo illumina di luce un film rutilante e contraddittorio, ma vibrante di una sincerità e di un incosciente coraggio che il cinema contemporaneo sembra aver dimenticato. Perché anche nei fallimenti si può trovare la grandezza.