Jay Kelly, star mondiale del cinema affetta da una profonda insicurezza, si ritrova a sessant’anni ad affrontare una crisi personale dopo le riprese del suo ultimo film, affiancato come sempre dal fedele e inseparabile manager Ron Sukenick, che da inizio carriera non lo ha mai abbandonato. La morte del mentore Peter, lo scontro con l’ex amico Timothy e il rifiuto della figlia adolescente Daisy di passare l’estate con lui incrinano la sua routine dorata.
Jay Kelly decide così di rinunciare ad un nuovo progetto e partire per l’Europa seguendo l’itinerario della sua secondogenita, trascinando con sé Ron e il suo intero entourage. Il viaggio da Parigi alla Toscana, tra flashback e confessioni inaspettate, diventa un complesso percorso di autoanalisi sui compromessi morali, sui legami familiari spesso trascurati e sull’effettivo prezzo della fama. Ne emerge il ritratto di un uomo che cerca un’autenticità smarrita, soffocata da quell’identità pubblica sotto i riflettori, prima che sia troppo tardi.
Jay Kelly e chi gli sta intorno – recensione
Il film, nuova esclusiva del catalogo Netflix, rappresenta il ritorno del regista Noah Baumbach a quel territorio narrativo che gli si confà maggiormente, relativo allo studio dei personaggi e all’esplorazione di rapporti umani complessi, filtrata attraverso la particolare sensibilità per i dettagli emotivi. Dopo l’esperimento distopico ma efficace nell’adattare l’inadattabile romanzo Rumore bianco (2022) di Don DeLillo, l’autore torna a un cinema più intimo e riflessivo, costruendo attorno a George Clooney un’opera profondamente metacinematografica, che utilizza la vera carriera dell’attore come fondamenta narrativa.
Un’operazione affascinante, forse imperfetta nel complesso ma in grado di spingere il pubblico a porsi degli interrogativi: stiamo guardando un film su Jay Kelly, personaggio di finzione, o su Clooney, icona dello star system contemporaneo? La risposta è ovviamente e volutamente ambigua. Per un’operazione che a tratti riesce a trascendere il suo spunto iniziale per esprimere qualcosa di sincero e coinvolgente ma altrove corre il rischio di restare intrappolata nel suo stesso ingegnoso artificio.
Sogni e disillusioni
La sceneggiatura lascia che numerose scene a forte tasso emotivo occupino il centro della narrazione, e questo cambio di registro può risultare spiazzante per chi conosceva il Baumbach più tagliente. D’altronde il protagonista si trova a rimettere insieme i pezzi della propria vita e a cercare di farsi perdonare dalle persone a lui più vicine, siano queste il manager di una vita (un ottimo Adam Sandler, che quando si cimenta in ruoli impegnati offre il meglio di sè) o quelle figlie che ha trascurato negli anni del suo maggior successo e che ora gli rinfacciano il tempo perduto.
Una scelta stilistica che si lega direttamente al soggetto trattato: un uomo che per tutta la vita ha interpretato emozioni per lo schermo ma ha fallito nel viverle autenticamente nel proprio privato. Permettere al sentimentalismo di emergere senza eccessiva ironia diventa quindi una soluzione coerente con l’arco narrativo di Jay, che cerca disperatamente di riconnettersi con i propri sentimenti più genuini dopo decenni passati a simularli professionalmente. Il tutto in un’Italia, amata da Clooney che l’ha scelta come sua seconda casa, che per una volta tanto è resa in maniera meno macchiettistica del solito, per quanto alcuni piccoli stereotipi permangano comunque.
Si avverte forse una certa pesantezza soprattutto nella parte centrale, con le due ore e rotti di visione che appaiono leggermente eccessive e un paio di sottotrame inserite senza poi essere esplorate appieno – con flashback più gratuiti che necessari – ma Jay Kelly è un film che ha comunque motivo di esistere, anche senza riuscire a eccellere.
Conclusioni finali
Un film profondamente divis(iv)o tra le sue ambizioni intellettuali e concettuali, con il contesto meta d’accompagnamento non sempre inserito organicamente, e la sua esecuzione emotiva, tra il desiderio di decostruire la celebrità e il bisogno di celebrarla, tra la critica del protagonista e l’affetto che la macchina da presa ha nei suoi confronti.
Jay Kelly possiede il fascino guascone di George Clooney, che più che diventare un tutt’uno col personaggio è al centro di un processo di assimilazione con la stessa pellicola, quella materia narrativa che diventa magma di sensazioni e sfumature, tra momenti di genuina brillantezza e un’incertezza di fondo che diventa metafora di un’esistenza frantumata. Non il miglior lavoro di Noah Baumbach, ma un’opera che pur nelle sue perfettibili imperfezioni ha dei motivi di interesse.