Artico, 1857. La Horisont, una nave danese intrappolata nei ghiacci apparentemente inscalfibili, diventa teatro di una drammatica resa dei conti: una creatura umanoide gigantesca, avvolta in stracci, emerge da quel bianco perenne, inseguendo un uomo morente.
Il capitano Anderson offre ospitalità al fuggitivo a bordo, prima che il Mostro attacchi l’imbarcazione per poi scomparire tra le acque gelide dopo che una lastra di ghiaccio si è infranta sotto i suoi piedi. Nel frattempo il ferito, tale Victor Frankenstein, comincia a raccontare la sua storia al comandante, ripercorrendo gli eventi che lo hanno condotto fino a lì.
Questo è l’inizio del film che Guillermo del Toro ha sognato di realizzare per quasi vent’anni e che finalmente, grazie a Netflix e a un budget spropositato, prende vita sullo schermo in tutta la sua gotica magnificenza.
Frankenstein: di mostri e uomini – recensione
Sin dal prologo emerge un’idea di magniloquenza e di tragicità di inusitata potenza, con la prima comparsa del “Mostro” che prende di mira l’equipaggio della Horisont, colpevole di aver offerto protezione al suo creatore, quel Victor che inizia a dare la sua versione della storia nella prima parte del film, in quel lungo flashback a ritroso. Flashback ripreso poi dal punto di vista della creatura, in un dualismo che cerca di esplorare appieno ragioni e torti di figure così complementari e antitetiche, nemesi ideali di un racconto che ha fatto la storia della letteratura horror e non solo.
Oscar Isaac porta al ruolo di Victor quella particolare intensità e arroganza, un individuo accecato dall’ambizione scientifica e che gioca a fare Dio per via di quel trauma infantile, relativo alla perdita della madre, che così profondamente l’ha segnato. Al contempo l’irriconoscibile Jacob Elordi nei panni del Mostro è un’anima devastata, con la sua performance sotto il make-up che rappresenta una delle interpretazioni più significative dell’anno, un lavoro di pura fisicità e intensità emotiva santificante un personaggio che la gente comune vede come uscito dall’inferno.
Christoph Waltz e Mia Goth completano, nei principali ruoli di supporto, un cast delle grandi occasioni, pronto ad accompagnarci in questa rilettura relativamente fedele, pur con qualche accortezza e aggiornamento qua e là, al testo pubblicato da Mary Shelley oltre due secoli fa.
Eppur si muove
Le prime scene dopo la “nascita” sono un prodigio di recitazione fisica: la Creatura che barcolla, che urla afflitta da terrore e confusione e scopre a piccoli passi quel mondo per lui nuovo. Quando poi, nella seconda metà delle due ore e mezza di visione, acquisisce il linguaggio e la consapevolezza di se stesso, questo nuovo Frankenstein esalta l’umanità dell’opera alla base in una narrazione che si avvia alla struggente resa dei conti finale, riconducendoci proprio a quel prologo dove ha inizio il film.
Un essere nato nel dolore, rigettato dall’umanità, che cerca disperatamente amore e comprensione, portando su di sé i peccati di chi l’ha generato, incurante delle conseguenze che la sua comparsa avrebbe avuto per tutti.
Il regista messicano, lavorando nuovamente con il direttore della fotografia Dan Laustsen (già suo collaboratore in Crimson Peak e La forma dell’acqua), riesce a creare un universo visivo che si fa ideale palcoscenico della tragica vicenda narrata, al contempo fedele all’immaginario gotico ottocentesco e in grado di insinuare il suo unico e iconico stile cinematografico. Immagini dense in un eccesso barocco a tratti straripante e incontenibile, frutto di quell’ossessione coltivata da del Toro verso questa summa della cultura dark per eccellenza. In una deriva quasi cristologica – emblematico il “crocifisso” della creazione – che trasforma il Mostro in un Santo, un parallelismo acuto e affascinante che porta il pubblico a identificarsi con chi solitamente era oggetto di ribrezzo e repulsione.
Conclusioni finali
Pur guardando a coloro che l’hanno preceduto in adattamenti più o meno eccellenti, il Frankenstein di Guillermo del Toro è un’opera profondamente viscerale e personale, dove lo scontro-incontro tra le due nemesi, il Creatore e la Creatura, assume contorni inquieti e struggenti, in una lotta di idee e di logica, con l’ossessione divoratrice a rispecchiare quella covata dallo stesso regista per il romanzo, classico tra i classici.
Il gotico all’ennesima potenza in una rappresentazione visivamente rutilante e narrativamente ricca di suggestioni, con il Mostro più umano degli uomini a farsi riflesso di quell’immortalità diventante un incubo senza fine, con l’eterna solitudine quale condanna di indicibile crudeltà. L’opera di Mary Shelley rivive in un film libero e fedele al contempo, magnificamente messo in scena e con un cast carismatico e perfettamente in parte, a cominciare proprio dalla deforme – ma non troppo – e imponente figura di un magistrale Jacob Elordi.