È notte fonda a Brooklyn. Nelle strade trafficate, illuminate dai lampioni al neon e dalle sirene lampeggianti, si muove un’America al collasso: corpi sanguinanti, tossici in overdose, vittime di violenza domestica, criminali di ogni specie. In questo inferno urbano si muovono Ollie Cross e Gene Rutkovsky, paramedici del turno notturno nell’East New York, uno dei quartieri più poveri e pericolosi della Grande Mela.
I protagonisti di Città d’asfalto sono molto diversi tra loro: il primo è un novellino dall’indole idealista che sogna di entrare alla scuola di medicina, il secondo è un veterano divorziato e disilluso, che ha visto troppo orrore per credere ancora in un domani migliore. Insieme si ritroveranno ad affrontare l’abisso della condizione umana, fino a quando una serie di eventi imprevisti non rischia di complicare tutto in maniera forse irreparabile.
Città d’asfalto: errare umanum est – recensione
Città d’asfalto è l’adattamento del romanzo Black Flies (titolo con il quale la pellicola era stata presentata originariamente al Festival di Cannes, in gara nel concorso ufficiale) di Shannon Burke, ex paramedico che ha riportato su carta la sua traumatica esperienza quinquennale nelle strade di New York.
Jean-Stéphane Sauvaire, regista francese che ricordiamo tra gli altri per il tormentato dramma carcerario Una preghiera prima dell’alba (2017), ha adattato il suo stile ansiogeno e sincopato a un racconto che già di per sé nascondeva pagine intense e crude, con la verosimiglianza o presunta tale nella gestione delle varie situazioni che compongono il denso nucleo narrativo. Denso anche troppo, con la stessa succitata verosimiglianza che è appunto presunta perché la serie di sfighe che accadono alla coppia di protagonisti, almeno per come sono state rappresentate, appare fin troppo utile alla carica enfatica e retorica dell’insieme.
Si esaspera un qualcosa che sappiamo già esasperante, nel tentativo di sfondare le difese emotive di un pubblico che viene trascinato sempre più a fondo, in questo girone infernale senza apparenti vie d’uscita che mostra tutte le storture del cosiddetto sogno americano. Niente a che vedere col tono più lirico e introspettivo di Al di là della vita (1999) e d’altronde Sauvaire non è certo Scorsese.
Immagini che non guardano in faccia nessuno
Tecnicamente Città d’asfalto è un’operazione solida, messa in scena con consapevolezza registica e con quel senso d’urgenza nel seguire da vicino le vicissitudini di questi paramedici che si ritrovano a cercare di salvare anche persone che li disprezzano apertamente. Un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo, e la scritta a precedere i titoli di coda a informarci del sostanziale aumento di suicidi negli ultimi anni tra le fila del corpo sanitario non fa che confermarlo.
La camera a mano segue da vicino i personaggi degli ottimi e complementari Tye Sheridan e Sean Penn, con guest-star del calibro di Michael Pitt e Mike Tyson e un cast di comparse variegato, che permette di ben contestualizzare la diversità di casi con i quali i Nostri hanno a che fare in questa metropoli multietnica dominata dalla violenza e dalla disperazione.
Le scene di pronto intervento sono girate con un realismo nudo e senza filtri. Sangue, vomito, tessuti lacerati, nulla viene risparmiato allo spettatore, pur senza arrivare alla spinta disturbante estrema di operazioni verità come la recentissima serie The Pitt. In questa corsa a perdifiato, dove l’allievo e il maestro si sopportano e si supportano, tra diversità idee e comuni stress, in una continua lotta contro il tempo per salvare più vite possibili, sacrificando di rimando le proprie.
Conclusioni finali
A tratti si osserva un macabro autocompiacimento nelle due ore di Città d’asfalto, operazione tanto lucida nel fotografare l’orrore quotidiano vissuto dai paramedici di New York quanto sovraccarica nell’affastellare situazioni in serie sempre più estreme e complesse, per quanto verosimili se prese singolarmente.
Alla base vi è d’altronde un libro scritto da chi quel lavoro l’ha fatto in prima persona, ma l’adattamento calca eccessivamente la mano sull’anima nera di un’America senza più regole, dove la violenza domina le strade e anche gli angeli possono trasformarsi in diavoli. Un film che colpisce duro, anche al rischio di urlare quanto necessitava di una maggior sensibilità d’insieme.