Il cinema bellico ambientato durante il conflitto del Vietnam, una delle guerre più controverse di tutti i tempi, possiede una filmografia così densa e stratificata, che spazia da capolavori ampiamente critici nei confronti dell’interventismo americano a titoli invece smaccatamente retorici e tronfi che ne idealizzavano le storture.
Approcciarsi oggi a quest’argomento quanto mai sensibile in un’epoca dove le tensioni geopolitiche sono all’ordine del giorno, richiede un coraggio e una maturità non indifferenti, purtroppo entrambe mancanti all’esordiente regista Mark Burman, esperienze da produttore ma alle sue prime armi dietro la macchina da presa di un prodotto di finzione.
Per Ambush la scelta è stata quella di focalizzarsi su uno degli aspetti più terrificanti e psicologicamente logoranti, relativa alla rete sotterranea che i Vietcong sfruttavano durante le fasi concitate della guerriglia. Ma in una confezione d b-movie, il rischio di scadere nel trash fuori luogo era assai alto…
Ambush: caduti nel tranello – recensione
Nel 1966 un avamposto delle forze speciali statunitensi viene brutalmente assaltato dai Vietcong, che riescono a sottrarre un prezioso dossier contenente informazioni top secret sull’intelligence nemica. Il Generale Drummond incarica il Capitano Mora di recuperare il documento a ogni costo, consapevole che la sua divulgazione potrebbe compromettere l’intero sforzo bellico.
Il peso della missione ricade sulle spalle del giovane caporale Ackerman e della sua squadra di ingegneri, soldati non addestrati al combattimento d’élite ma costretti a improvvisarsi topi da tunnel, addentrandosi nel sottosuolo della giungla. In quel labirinto di cunicoli asfissianti, disseminati di trappole mortali e dove il buio diventa il vero antagonista, avrà luogo una disperata missione per la sopravvivenza che metterà alla prova la loro umanità.
Scelte discutibili
L’intento del regista parrebbe chiaro fin dalle prime battute, ovvero spogliare la guerra della sua epica spettacolare per restituirne la dimensione più opprimente e claustrofobica. Peccato che il tutto sia confezionato in un’ottica a basso budget ideologicamente irricevibile, che tra frasi fatte e gesta di presunto eroismo non fa che esaltare i soldati americani con un’irritante verve patriottica che non si vedeva dai tempi di John Wayne.
Slow-motion, esplosioni e sparatorie in ambienti ridotti, violenza brutale per poi dar vita a personaggi dalla profondità pressoché nulla, dei quali allo spettatore fregherà ben meno che zero. Non aiuta l’anonimo cast di volti misconosciuti, con le guest star Aaron Eckhart e Jonathan Rhys Meyers relegate in minuscoli ruoli secondari.
La monotonia prende progressivamente il sopravvento, con la missione sottoterra da parte di questi giovani soldati che li vede strisciare in anfratti sempre più ridotti, con la minaccia delle incursioni nemiche a innestare potenziali sussulti tensivi. Che appunto rimangono inespressi, giacché la gestione stessa delle dinamiche action è confusa e poco ispirata, con la logica dello sparare per primi quale leit-motiv per l’auspicata salvezza.
Conclusioni finali
La guerra è sempre sporca ma qui se possibile la si imbruttisce ulteriormente, non tanto per via di quell’amoralità sempre presente in tali contesti belligeri, ma per via di una messa in scena derivativa e tronfiamente retorica, poggiante su personaggi stereotipati e su un patriottismo gratuito figlio di una certa America contemporanea.
In Ambush il conflitto in Vietnam – ma il basso budget e l’ambientazione improvvisata non danno mai la sensazione di trovarsi in tale contesto – viene spogliato di orrore e crudezza, in favore di una narrazione claustrofobica nel tentativo di nascondere i limiti di produzione. Ma tra scene al rallentatore, dialoghi che vivono di frasi fatte e gesta da “macho”, il film mostra tutto il proprio pressapochismo, ulteriormente amplificato dalla caratterizzazione pari allo zero del nemico da affrontare, ridotto a mera carne da macello.