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Peaky Blinders, la recensione no spoiler della serie che mostra il lato sporco dell’Inghilterra

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Se quando sentite la parola “Inghilterra” pensate alla corona reale, alla scintillante Londra o al tè coi biscotti, è ora di aprire gli occhi e respirare a pieni polmoni il fumo e la puzza di marcio dei sobborghi di periferia sfregiati dalla malavita. Aprite gli occhi, fatelo “per ordine dei fottutissimi Peaky Blinders”.

Peaky Blinders, la trama

La Birmingham del 1919, il grigio e il fumo di una seconda rivoluzione industriale che ha da poco superato il suo picco, la diffusa depressione post prima guerra mondiale, il proibizionismo, il pessimismo cronico figlio del giovedì nero: è questo lo sfondo della serie “Peaky Blinders”. Uno sfondo i cui umori sono spenti e i dolori si soffocano sul fondo di un bicchiere di whiskey dopo l’altro; uno sfondo povero e disagiato, lo sfondo perfetto per fungere da nido a dei criminali che vogliono prendersi Birmingham, l’Inghilterra e tutto il resto senza dover chiedere nulla a nessuno. Gli Shelby sono una famiglia di origine gitana, a capo di un gruppo criminale da loro stessi creato e che si occupa di gioco d’azzardo e altre faccende poco lecite: i Peaky Blinders. I membri principali sono i fratelli Thomas (Cillian Murphy), Arthur (Paul Anderson), John (Joe Cole) e Finn (Alfie Evans-Meese), reduci di guerra. Una guerra che li ha segnati nel profondo, nell’anima e nella mente, che ha lasciato in loro delle cicatrici invisibili all’esterno ma che tormentano le loro esistenze nel quotidiano. Guardare negli occhi la morte incontrata all’interno di una miniera li ha fatti, per contrasto, rifuggire qualunque spirito di giustizia che non sia la loro, qualunque regola, qualunque ordine di sottostare a qualcun altro.

Si fanno chiamare Peaky Blinders per via dei loro cappelli, appuntiti (peaky) come le lame ben nascoste nella visiera, ma taglienti quando vengono lanciate contro eventuali antagonisti, contro chi cerca di ostacolare il loro cammino: un cammino di sangue che, se interrotto, genera altro sangue. Dunque il nome “Peaky Blinders” suona un po’ come “lamette accecanti”, come accecante diverrà ben presto il loro dirompente potere. Ma non hanno l’aspetto dei soliti malavitosi, sembrano anzi dei signori d’alta borghesia, col loro stile ricercato ed elegante che oggi definiremmo “hipster”. E fin qui c’è ben poco di costruito, perché i Peaky Blinders sono esistiti davvero e le loro gesta nella Birmingham del primo dopoguerra sono note agli storici, ma le vicende di questa serie tv prendono solo in prestito il contesto storico, romanzando e inventando liberamente personaggi, azioni, trame, amori, passioni e crimini. La guida dell’intera organizzazione è ovviamente il geniale Tommy Shelby, colui che prende sulle sue spalle la famiglia, la porta in salvo e la spinge e la salva nei e dai meandri più stretti del pericolo.

Peaky Blinders, perché guardarla

La serie ideata da Steven Knight è certamente fatta bene, e tutto ciò che è fatto bene merita di essere guardato. Ma “Peaky Blinders” ha dalla sua tantissimi elementi che la rendono davvero forte e calamitante quanto lo sguardo di Cillian Murphy stesso. Su cosa ci concentriamo? Sui personaggi: caratterizzati divinamente. Ognuno ha la sua storia, il suo animo ben definito che possiamo scrutare meticolosamente, possiamo entrare tra le pieghe del loro carattere, muoverci nel fitto drappeggio dei loro spiriti e coglierne i pregi, i difetti, rivedendoci in loro pur non essendo – noi – dei gangster. Fanno paura, i Peaky Blinders, ma forse la incutono per esorcizzare la loro di paura, per mettere a tacere i loro demoni che gli offuscano la vista e la mente, rendendola cupa e buia come Birmingham, nebbiosa come una fumeria d’oppio, agitata come il loro pub quartier generale. Lo stesso Tommy, vero capo famiglia pur non essendo primogenito, va dritto incessante nella sua marcia in salita verso l’affermazione sociale, nel tentativo di lavarsi l’anima dal carbone delle miniere da cui tutto è cominciato, o forse in cui tutto è finito.

E a vederlo così, con lo sguardo glaciale quasi vitreo, col sorriso assente ingiustificato anche nei momenti più lieti, si può quasi credere di trovarsi di fronte a un morto che cammina, perché in fondo – come dice lui – “La morte a volte è una benedizione”. Sembra perso nella sua apatia Tommy, e invece è tutt’altro che apatico; il suo pathos è vivido quando vengono toccati quelli che sono i suoi valori. Ha un atteggiamento distaccato da quella che è la vita, le cose materiali che accumula e colleziona senza tenerne poi così conto, ma ciò a cui non può assolutamente rinunciare è la famiglia, l’unico albero maestro a cui dover restare aggrappati quando la burrasca del vivere ti rompe i remi e ti strappa le vele. Un simile personaggio è reso in maniera strepitosa ed emozionante da Cillian Murphy, che nella sua carriera aveva avuto modo di mostrare le sue doti attoriali, ma questa serie lo ha decisamente consacrato.

Certamente c’è la complicità della struttura stessa dell’opera, che è dilatata su più di 10 anni dal momento che la prima stagione è del 2013; un periodo di tempo lungo che ha permesso agli spettatori della prima ora di assaporarne l’evoluzione, la crescita, la lievitazione lenta e prodigiosa in grado di coinvolgerti rendendoti tutt’uno con l’impasto. E in questa maglia glutinica che è “Peaky Blinders” si familiarizza con i personaggi, con l’ambizione di Tommy, con le nevrosi di Arthur, con la saggezza di zia Polly, con l’irrequietezza di Alfie Solomons (interpretato da un fantastico Tom Hardy) e con le sfumature di tutti gli altri che si aggiungeranno con lo scorrere della narrazione.

Lo spessore dei personaggi prende il sopravvento su una trama che è comunque scritta in maniera eccellente, le cui dinamiche si fanno più fitte via via che si procede nel correre degli episodi incastrando lo spettatore in una trappola cinese dalla quale è difficile uscire: si arriva al punto che si ha la netta necessità di sapere cosa succederà dopo l’ultimo episodio visto perché, in fondo, dopo 10 anni vogliamo sapere come sta Tommy e cosa farà, se Arthur ha risolto i problemi della sua anima, se l’ascesa del nazismo in Europa e i machiavellici piani degli antagonisti faranno saltare i delicati equilibri creatisi fino a quel momento. Abbiamo bisogno di saperlo così come si ha bisogno di chiamare un parente per sapere come sta. Ed è proprio questo fittizio legame di parentela che ci fa commuovere per l’uscita di scena di zia Polly, un personaggio di un’intensità unica la cui attrice, Helen McCrory, ha saputo trasmettere fino all’ultima scintilla del suo sguardo, col dolore dipinto in volto e il nero perenne nel cuore.

Quando la McCrory nel 2021 è venuta a mancare, non è morta solo una grande attrice che già avevamo conosciuto – tra le altre cose – in Harry Potter nei panni della madre di Draco Malfoy, è venuta a mancare la zia Polly; ma non la zia di Thomas Shelby, la nostra zia. E anche qui gli autori della serie hanno fatto di necessità virtù, rendendo un omaggio sentito, sincero, toccante, pulito, intelligente, funzionale e assolutamente dovuto al personaggio, all’attrice e alla donna. Ma se non l’avete ancora fatto, guardate la serie per assistere in religioso silenzio a ciò di cui stiamo parlando, non vogliamo svelarvi troppo. Se dovessimo dunque sintetizzare il tutto e puntare su un solo elemento come punto di forza della serie, diremmo i sentimenti. Sono i sentimenti a guidare tutto: rabbia, passione, vendetta, ambizione, amore, dolore, vita, morte, paura, angoscia, sono i cavalli che trainano l’enorme auriga narrativa con noi a bordo, testimoni e protagonisti di un viaggio a cui è davvero difficile non affezionarsi.

Peaky Blinders, perché non guardarla

Abbiamo esordito dicendo che le cose ben fatte meritano di essere guardate, ma qui aggiungiamo che non tutte le cose fatte bene sono adatte a tutti. La qualità generale può essere un dato oggettivo, ma poi ci sono i gusti che sono personali, diversi e che spesso non collimano con ciò che è universalmente riconosciuto come ottimo. D’altronde, come si è sempre detto, non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace. E perché “Peaky Blinders” potrebbe non piacere? Il motivo è quello che la accomuna a tantissime altre opere magistrali come ad esempio “Breaking Bad” o “Game of Thrones”: la lentezza narrativa.

Peaky Blinders è un racconto che va gustato con calma, aspettando e sorseggiando, come un tè caldo in una tazza in ceramica, da buona serie inglese che si rispetti. Può accadere di abbandonare la visione dopo il primo episodio o comunque durante la prima stagione, in quanto può non sembrare quel capolavoro che poi nel tempo si rivela. Già, il tempo. Di tempo Peaky Blinders ne richiede parecchio: 36 episodi (fino alla stagione 6) da circa 1 ora ognuno diluiti in oltre 10 anni di tempo per raccontarne circa 15 di anni narrativi. Praticamente 1 anno reale corrisponde a poco più di 1 anno nella serie, questo per farvi rendere conto di quanto la narrazione scorra con calma e senza fretta.

Si tratta di una serie lunga, che anche se si volesse guardare ora (quindi senza attendere i 10 anni che hanno dovuto vivere coloro che l’hanno seguita dalla sua prima uscita) richiederebbe un certo impegno. Noi siamo qui per dire che prodigarsi in quest’impegno vale la pena, e che vi piaccia il crime o no, che vi piacciano le ambientazioni storiche o no, questa serie ha a che fare con le vostre vite più di quanto possiate credere. Tutto sta nel guardare l’opera con l’occhio giusto, perché come dice Tommy, “Non è una buona idea guardare Tommy Shelby nel modo sbagliato”.

Il trailer italiano

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